Modelli virtuosi passati e recenti
Premessa
È indubbio che nella crisi attuale una buona parte di responsabilità vada ricercata nell’edilizia, specie in quella edilizia pubblica che ha comportato un enorme indebitamento a livello locale e nazionale … a qualcuno è parso molto facile, se non addirittura cosa buona e giusta, poter fare “sperimentazioni” edilizie a spese pubbliche[1], e lo Stato è stato connivente in questo gioco al massacro del paesaggio e dei conti pubblici italiani, consentendo che l’insegnamento dell’architettura avvenisse in modo ideologico e perverso, e che le realizzazioni pubbliche venissero progettate e costruite secondo modelli ideologici fallimentari.
Aver consentito che le città si sviluppassero in maniera ipertrofica, ben sapendo che questo avrebbe comportato delle immani opere di urbanizzazione, che si sarebbero tradotte in ingenti spese di costruzione e costanti spese di manutenzione (strade, fogne, acquedotti, linee elettriche, gasdotti, potatura delle alberature, ecc.), ovviamente gravanti sulle casse pubbliche, ergo sui contribuenti, è stato un errore imperdonabile da parte di chi, in base al Codice di Procedura Civile, dovrebbe comportarsi come il “buon padre di famiglia”[2], ovvero ben amministrando ed evitando le spese superflue.
L’edilizia sociale, dallo ZEN di Palermo al Corviale di Roma, passando le Vele di Scampia, si commenta da sola.
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Ma la responsabilità non risiede solo nell’edilizia popolare dozzinale: basti pensare al boom di costosissimi “edifici prestigiosi” fatti realizzare alle archistars internazionali e nostrane, affinché l’Italia potesse competere culturalmente con quelli della grandeur di Mitterand e con quelli promossi dalla Thatcher per le stesse ragioni “culturali”. Parliamo di edifici che, oltre ad aver provocato una emorragia di denaro pubblico e un crescente indebitamento con le banche – rigorosamente private – non hanno portato alcun beneficio per lo Stato e le economie locali.
Pensiamo
ai drammatici conti in rosso dei capricci architettonici come il MACRO e il MAXXI di Roma, ma pensiamo a tutte quelle cosiddette grandi opere, che di grande hanno avuto solo i costi … più che “grandi opere” andrebbero definite “opere grossolane”: dalle opere per il G8 mai svoltosi alla Maddalena, alla Nuvola di Fuksas all’Eur di Roma, per terminare con le spese folli – già sostenute – per l’inutile, e pericoloso, Ponte sullo Stretto, opera che non considera né la qualità delle strade e ferrovie che dovrebbe collegare, né i problemi di spostamento delle coste, né quelli delle famiglie il cui lavoro dipende dall’attuale sistema di trasporto e che un domani, come si suol dire, “potrebbero vedersi mettere in mezzo a una strada” … tutte opere realizzate e proposte grazie alla generosità di “Pantalone-Italia” sempre disposto a pagare, con i nostri soldi, per soddisfare tutti i capricci dei politici affamati di fama, delle improbabili archistars e dei tanti imprenditori spregiudicati, ai quali potremmo anche togliere il prefisso “spre”.

Tempo fa avevo lanciato uno slogan: basta con le “grandi opere”, promuoviamo le “opere grandi”, intendendosi per “opere grandi” quelle opere meno vistose, ma necessarie; ovvero quelle opere mirate al miglioramento delle condizioni di vita dei residenti, al miglioramento dell’ambiente e al miglioramento delle sorti dell’economia locale e nazionale, piuttosto che alla conquista della copertina di una rivista patinata!
Non più quindi opere puntiformi – realizzate a favore di quelle “grandi aziende” privateche, operando secondo il sistema “prendi i soldi e scappa”, nulla lasciano all’economia locale, se non i debiti – ma opere riqualificanti, equamente diffuse su tutto il territorio nazionale, realizzate sì – lo vedremo di seguito – in maniera pubblica, però secondo quanto teorizzato oltre cento anni fa da Montemartini e messo in pratica dall’Istituto per le Case Popolari finché gliene fu data la possibilità. Non si tratta quindi di continuare a reinventare la ruota, ma semplicemente di riadottare dei modelli virtuosi del nostro passato che il tempo ha mostrato essere validi.
Proviamo quindi a riflettere sul possibile modo per far coniugare gli interessi del settore produttivo dell’edilizia, con quelli della tutela del territorio e dell’ambiente, cosa che mi sta particolarmente a cuore, ma soprattutto riflettiamo su come questa cosa potrebbe risultare utile all’intera comunità.

Uscire dal debito – ruolo dell’edilizia pubblica e modelli utili da considerare
Il mio libro La Città Sostenibile è Possibile[3] si apriva con la citazione di una frase di Giovanni Giolitti del 1907. Lo statista, discutendo delle ragioni del crack finanziario della Roma post-unitaria che aveva abboccato all’esca della convenzione[4] tirata dal cardinale De Merode – uno strumento urbanistico a vantaggio della speculazione privata di cui il cardinale stesso risultava essere il deus ex machina – disse:
«Se in principio, nel 1870, vi fosse stata un’Amministrazione comunale che, intuendo l’avvenire di Roma, avesse acquistato le aree fino a 5 o 6 km intorno alla città, ed avesse compilato un piano di ingrandimento, studiato con concetti molto elevati, oltre ad avere creato una città con linee molto più grandiose, avrebbe anche fatto un’eccellente speculazione»[5].
Nel libro ricordavo come, dovendo porre rimedio a quell’errore, già alla fine dell’Ottocento, il sindaco Luigi Pianciani tentò di rendere il Comune un soggetto attivo con spirito imprenditoriale poiché, come ha osservato il compianto Italo Insolera:
«in una città che ha l’edilizia come sua unica attività industriale, il deficit dell’amministrazione […] può essere sanato proprio con una diretta partecipazione in tale ramo di investimenti»[6].
Alla luce di questi fatti, volendo entrare nel merito del discorso economico, ritengo possa essere utile guardarci intorno, e cercare di capire il modo in cui alcuni Paesi, che stavano messi peggio di noi, siano riusciti ad uscire dal debito. La conoscenza di certe cose, ne sono convinto, potrebbe risultare di grande aiuto per trovare un modo per risollevare le sorti dell’Italia.

Per esempio, un interessante articolo pubblicato il 10 settembre 2012, sul sito “La Penna della Coscienza”, raccontava come “in Argentina, nel 2008, la Kirchner salvò e nazionalizzò la compagnia di bandiera Aerolineas Argentinas e Austral Lineas Aereas, nazionalizzò il sistema aeroportuale e attuò importanti investimenti nei principali scali nazionali. Come se non bastasse, nazionalizzò anche l’azienda aeronautica Lockeheed Martin, nazionalizzò i fondi pensionistici consentendo la salvaguardia delle pensioni. Creò il polo scientifico tecnologico di Buenos Aires, creò il Ministero della Scienza e attuò un programma per il rimpatrio di 800 ricercatori argentini dall’estero. Nel 2009 fu stabilito per decreto che per ogni figlio minore di 18 anni fosse assegnato un assegno che consentisse alla famiglia di uscire dalla soglia di povertà e con l’unico obbligo di frequentare l’istruzione obbligatoria tra i 5 e i 18 anni e tra il 2006 e il 2009 la soglia di povertà in Argentina è scesa dal 21% all’11,3% e fino al 9,6% nelle aree metropolitane”.
È interessante ascoltare, direttamente dalla voce della Kirchner, ciò che ha detto in occasione del pagamento dell’ultima rata del debito:
«Per dieci, lunghi anni, abbiamo vissuto nel limbo. Per dieci, lunghi anni, abbiamo protestato, contestato e combattuto contro le decisioni del FMI che voleva imporci misure restrittive di rigore economico sostenendo che fossero l’unica strada. Noi abbiamo seguito una strada opposta: quella del keynesismo basato sul bilancio sociale, sul benessere equo sostenibile e sugli investimenti in infrastrutture, ricerca, innovazione, investendo invece di tagliare. Abbiamo risolto i nostri problemi. Ci siamo ripresi e siamo in grado di saldare l’ultima tranche con 16 mesi di anticipo. Le idee del FMI e della Banca Mondiale sono idee errate, sbagliate! Lo erano allora, lo sono ancor di più oggi».
Ma, in materia di debito, ci sono altre notizie simili che non sono passate per i nostri “media accreditati”, e che possono tornarci utili. Per esempio quella pubblicata da diversi social networks, come “Naturalmente Verona” – un sito che promuove il commercio equo e solidale – ovvero quella notizia che ci racconta come, a differenza del resto d’Europa, “in Islanda si registra il 2,4% di crescita e la disoccupazione è scesa al 6,1!” Se qualcuno si chiedesse cosa possa essere accaduto in quella remota isola, l’articolo racconta che “il popolo islandese è riuscito a far dimettere un governo al completo; sono state nazionalizzate le principali banche commerciali, i cittadini hanno deciso all’unanimità di dichiarare l’insolvenza del debito (debito illegittimo). Il nuovo Governo ha disposto le inchieste per determinare giuridicamente le responsabilità civili e penali della crisi, sono stati emessi i primi mandati di arresto per diversi banchieri e membri dell’esecutivo; l’Interpol si è incarica di ricercare e catturare i condannati: tutti i banchieri implicati hanno abbandonato l’Islanda”.

Ebbene, per ciò che ci riguarda, e senza voler scomodare Maynard Keynes, il quale riteneva che l’intervento pubblico nell’economia potesse sostenere la domanda aggregata e, di conseguenza consentire il rilancio dell’economia, potremmo limitarci ad analizzare quella che fu la politica economica dell’ICP di Roma all’inizio del Novecento, politica che gli consentì di sanare i conti pubblici e realizzare casepopolari “a costo zero”, divenendo una solidissima azienda che costruiva in proprio e per conto terzi gli edifici residenziali … cosa che gli consentì altresì di tener testa al problema della disoccupazione.
Nel pensiero socialista di Luigi Montemartini[7] sulla cooperazione – fondamentale nella politica del sindaco di quegli anni, Ernesto Nathan, e dell’ICP – si consideravano i possibili benefici economici per l’intera società derivanti dall’emancipazione del settore pubblico dalle imprese private. In essa si vedeva la necessità della creazione di un “partito dei consumatori”, in grado di impostare una corretta politica di governo urbano. Politica che veniva a coinvolgere non solo i ceti popolari ma anche la piccola e la media borghesia.
Accanto a questa lungimirante visione, alla base della politica gestionale dell’ICP, come ho potuto documentare accuratamente ne “La Città Sostenibile è Possibile”, lo Stato produsse anche una serie di norme a supporto dell’Ente, e di incentivo e agevolazione fiscale per tutti, affinché potesse risolversi il problema casa, migliorando al contempo la situazione socio-economica della Capitale, in perenne crescita demografica.
Per comprendere di cosa si stia parlando, e per capire come la cosa possa aiutare ad uscire dalla situazione economica attuale, torna utile raccontare il caso del quartiere Testaccio di Roma, questo quartiere, infatti, è quello sul quale furono messe in pratica quelle idee lungimiranti di cui sopra. La cosa si poté realizzare in risposta alle battaglie sociali combattute dal Comitato per il Miglioramento Economico e Morale diTestaccio[8], che rifiutava categoricamente l’assistenzialismo della Chiesa, poiché questo sistema obbligava il popolo ad una vita parassitaria di perenne dipendenza da essa. Il popolo voleva un lavoro che gli facesse ottenere l’auspicato riscatto sociale.
Il popolo voleva rendersi partecipe della vita e della produzione della comunità.
Su queste basi, all’epoca della costruzione del quartiere Testaccio, si fondò il principio di rafforzare le cooperative edili romane – una buona parte delle quali si era formata proprio tra gli stessi lavoratori del quartiere – e così, piuttosto che affidarsi ad una importante impresa privata che aveva anche messo a disposizione una cospicua somma di denaro, si decise di affidare a quelle cooperative la costruzione dei luoghi dove avrebbero dovuto vivere: la scelta dell’amministrazione socialista di affidarsi alle cooperative, intendeva dimostrare la possibilità concreta di creare, anche a Roma, un tessuto produttivo alternativo alle imprese private. Politicamente questo era anche un messaggio in risposta ai disastrosi effetti economici e sociali dovuti alla massiccia speculazione edilizia che aveva caratterizzato le precedenti amministrazioni clericali[9].
Questo criterio si dimostrò talmente valido che, dopo il Testaccio, venne adottato per tutti i quartieri realizzati dall’ICP, anche al di fuori di Roma … fino al momento in cui, instauratosi il regime fascista, non cambiarono le condizioni politiche e venne istituita la Legge sui Governatorati[10].

Il criterio equo e virtuoso sviluppato dall’ICP, consentiva una gestione del cantiere che ne velocizzava la costruzione: grazie alla frammentazione dei lotti, ed alla concessione in appalto a differenti cooperative artigianali, gestite e controllate dall’ICP tramite l’Unione Edilizia Nazionale e il Comitato Centrale Edilizio, la costruzione di un lotto, o di un intero quartiere, poteva procedere contestualmente da direzioni opposte.
Questo modo di procedere dell’ICP aiutava a ridurre notevolmente il problema della disoccupazione, generando tra l’altro una vasta manodopera in regime di concorrenza. Tra l’altro, il fatto che i costruttori risultassero anche i “consumatori” del prodotto finito, alzava notevolmente il livello qualitativo finale. Non è dunque un caso se, a cento anni di distanza, ci troviamo a parlare di edifici che, pur essendo nati come popolari, oggi risultano tra i più richiesti dal mercato immobiliare, che li considera alla stessa stregua del centro storico!
Ebbene, se questa lezione gestionale venisse recepita oggi, se fossimo in grado di guardare al problema urbanistico e ambientale delle nostre città come ad una risorsa, potremmo accorgerci che la svolta per il rilancio dell’economia potrebbe avvenire proprio grazie ad esso!
L’urbanistica novecentesca ci ha lasciato in eredità delle città disastrose, fatte di quartieri criminogeni, dove i “vuoti urbani” dominano la scena. A causa di stupide normative urbanistiche novecentesche possediamo strade molto più larghe di ciò che dovrebbero, edifici che non si affacciano più sui marciapiedi ma che risultano prigionieri di orribili recinzioni, enormi parcheggi spesso inutilizzati, orribili centri commerciali che uccidono il commercio al dettaglio lungo le strade e che, conseguentemente, tolgono sicurezza alle stesse; aree verdi che non hanno nulla di verde, … insomma, un disastro prodotto da norme e standard minimi che, sebbene ci fossero state presentate come misure a vantaggio dei diritti del cittadino, in realtà hanno prodotto un consumo spropositato di suolo, donandoci delle città caratterizzate da immani superfici inutilizzate, e inutilizzabili, superfici che, essendo demaniali, necessitano di enormi costi manutentivi sostenuti dai contribuenti.
Eccola dunque la risposta: quelle superfici sono demaniali, ergo possono configurarsi come quelle aree pubbliche ove operare «un’eccellente speculazione» che Giolitti lamentava non esserci stata!
Infatti, se i comuni, gli IACP o ATER, riprendessero in mano la lezione di Montemartini, di Nathan e dell’ICP, e decidessero di operare in concorrenza con le imprese private (ergo calmierando il mercato), rendendo edificabili i tanti vuoti urbani di proprietà pubblica al fine di ricompattare il territorio comunale, non solo sarebbe possibile realizzare edifici tradizionali energeticamente validi all’interno di città nuovamente “compatte e sostenibili", in quanto non più schiave dell'autotrazione – a differenza della presunta bioarchitettura che vede brutti edifici industriali che, sebbene energeticamente validi sorgono in città disperse dove senza l’automobile non si può vivere – ma sarebbe anche possibile creare una miriade di posti di lavoro, riformando peraltro quell'artigianato edilizio necessario a restaurare in maniera corretta il nostro patrimonio storico.

In questo momento, ricompattare le città realizzando edifici tradizionali in grado di abbattere i costi di manutenzione, ma soprattutto quelli di riscaldamento e raffrescamento, significherebbe farci trovare preparati alla fine dell’era del petrolio, e a quel punto non dovremmo nemmeno arrovellarci il cervello al pensiero di come produrre energia pulita per far funzionare i nostri edifici, perché ci saremmo dotati di edifici a basso consumo energetico che sorgono in città che non richiedono autotrazione privata. Le energie alternative andranno comunque ricercate e sviluppate, ma per produrre un quantitativo di energia decisamente inferiore a quello richiesto dalle città attuali.
Questa “partecipazione diretta dello Stato nel processo edilizio e nel mercato fondiario”, come l’Argentina e l’Islanda insegnano, dovrebbe andare di pari passo con la nazionalizzazione delle banche, a quel punto il debito potrebbe davvero divenire un brutto ricordo lontano … cosa stiamo aspettando dunque??
[1] Il progettista del Corviale di Roma, Mario Fiorentino, ebbe bellamente a dire: «ci sono due modi di fare Architettura ... o forse ce n’è solo uno ... c’è quello semplice e pacato dell’utilizzazione degli schemi super testati che l’edilizia pubblica in Italia – e non considero solo quella romana – ha più o meno accettato. E poi c’è quello sperimentale, che è il metodo a cui l’esperienza di Corviale appartiene. Io ricorderò sempre come Ridolfi, che è stato il mio vero maestro, sempre mi diceva: “quando progetti per un cliente (e l’edilizia pubblica è un cliente come un qualsiasi altro privato), senza rivelarglielo tu devi sempre sperimentare” perché, in effetti, queste sono esattamente le opportunità nelle quali gli esperimenti possono essere fatti!»
[2] Infatti, nel capitolo – Obbligazioni del Mandatario, art. 1710 (Diligenza del mandatario) si legge: «Il mandatario è tenuto a eseguire il mandato (2030, 2392, 2407, 2608) con la diligenza del buon padre di famiglia» (1176 – diligenza nell’adempimento).
[3] E. M. Mazzola, La Città Sostenibile è Possibile – The Sustainable City is Possible. Prefazione di Paolo Marconi. Gangemi Edizioni, 2010.
[4] Per precisare di ciò che si intende per “convenzione”, cito la chiarissima spiegazione che ci dà Italo Insolera in Roma – Immagini e realtà dal X al XX secolo, Laterza Edizioni, Roma-Bari 1980, pag. 367: «la convenzione è un contratto tra il proprietario di un terreno e il Comune. Il proprietario si impegna a cedere al Comune ad un prezzo modesto le superfici stradali (generalmente secondo un tracciato fatto dal proprietario stesso) quindi ridotte al minimo indispensabile per la sola circolazione [questo commento è mio] e raramente qualche area per i pubblici servizi (scuola, mercato, ecc.); il Comune si impegna a costruire le fogne, l’acquedotto, le condutture del gas, i marciapiedi, il selciato, la pubblica illuminazione, le fontanelle e i tombini per l’innaffiamento e si impegna alla manutenzione permanente di tutto ciò (oppure il Comune incarica, sempre a proprie spese – abbondantemente anticipate – lo stesso proprietario di realizzare queste opere). Il Comune infine autorizza la costruzione dei lotti risultanti dal tracciamento delle vie, secondo il progetto presentato dal proprietario, raramente con qualche modificazione».
[5] Per l’edilizia della capitale, Camera dei deputati, tornata 16 giugno 1907, Discorsi, vol. III, p. 969.
[6] Italo Insolera, op. cit., pag. 32.
[7] Luigi Montemartini, (Montù Beccaria (PV), 6 marzo 1869 – Pavia, 5 febbraio 1952) politico socialista che si batté per i diritti dei contadini e per l’affermazione dei principi della cooperazione.
[8] Di questo Comitato, presieduto dal proto-sociologo Domenico Orano, facevano parte diverse associazioni e cooperative, tra le più propositive di tutte quelle presenti nei vari quartieri popolari romani del periodo.
[9] Simona Lunadei, Testaccio: un quartiere popolare, Franco Angeli, Milano 1992, pag.83.
[10] In particolare nel 1926 avviene una modifica sostanziale dello Statuto dell’ICP che comporta una ulteriore limitazione di autonomia dell’Istituto che, perdendo quel carattere di imprenditorialità aziendale che aveva raggiunto, diviene un semplice gestore della politica del Governatorato.