Questo editoriale è ispirato da un Natale che si è mostrato ancor più superficiale e cafone dei precedenti e, se possibile, ancor più avulso dal sacro, perciò, terminata la consueta corsa consumistica in mezzo a cui, nonostante le indicazioni del Papa, i parroci di molte chiese investiti da furore contro-contro-contro-riformista hanno regolarmente snobbato la Messa in latino, e rinnovato i fasti populisti del "volemose bene" e del "magnamo tutti insieme", terminato questo folle spreco di carta, di sms, di telefonate, dove riemerge dal nulla gente che non sentivi da mesi (a volte anni), e che si ricorda improvvisamente che "è Natale, e a Natale si può fare di più", terminata questa bagarre di regali inutili, quest’orgia di film sui Babbi Natale (sempre più alternativi e sgangherati), questo continuo equivoco sul Polo Nord e sull’Albero, queste improvvise riscoperte del "Giorno del Sole invitto", queste trasmissioni sul paranormale angelico-natalizio, queste fasulle lotterie filantropiche; terminato quest’obbligo alle mance, ai sorrisi stampati, all’happy day, al gospel delle monache hippy, alla commozione in diretta TV, terminato tutto ciò ci si può accorgere che l’immenso cumulo di rifiuti che segue a tali luminarie sta portando via quel lieve profumo di muschio, d’incenso, di legna che accompagnava un periodo dedicato alla celebrazione del rinnovamento del mondo, ma anche al silenzio e alla riscoperta di quel misterioso Sole rinascente nel cuore dell’uomo.
Immerso in queste considerazioni malinconiche che dietro le maschere festaiole rendono ancor più evidente l’enorme difficoltà di comunicazione e d'amore tra gli uomini, ho provato a pensare a cosa farebbero alcuni esseri umani se nel mondo non esistessero tanta sofferenza, tanto dolore e tanto male, visto che molti di tali esseri vivono in funzione di tale sofferenza. Non voglio affrontare in chiave etica o filosofica il tema del male o del dolore e del loro "perché": in merito esiste già una sterminata bibliografia mistica sia cristiana che buddista.
In queste note vorrei fare un discorso pragmatico, semplice, quasi brutale, e vorrei mettere in evidenza come, da parte dei "buoni", dei filantropi, dei soccorritori di professione e anche, a volte, da parte di quelli buoni per "vocazione", possa esserci una sottile "gestione" utilitaristica del male, della malattia e del dolore. Perché è chiaro che i malati e i sofferenti sono utili. Cosa accadrebbe se diminuissero improvvisamente? Ci sarebbero medici e infermieri disoccupati; migliaia di badanti dovrebbero tornare in patria; milioni di posti di lavoro nelle industrie farmaceutiche e nei produttori di presidi medico-chirurgici sarebbero a rischio; senza contare gli sponsor televisivi. E come non pensare, con un briciolo di malignità, che dentro il cuore di colui che offre le sue cure o la sua assistenza non alberghi anche la speranza di aver sempre qualcuno da curare o da aiutare?
Riflettiamoci, al di là della natalizia propensione filantropica: siamo proprio certi che le imprese gigantesche come quelle pubbliche e private che s'interessano della cosiddetta "salute pubblica" non sperino che qualche malattia peggiori, si sviluppi, si diffonda un po' di più, magari per distribuire qualche vaccino in più, per fare qualche altra lotteria, per finanziare qualche "Onlus"?
Tutta l’economia planetaria è basata sul soddisfacimento del bisogno. Che questo sia un bisogno primario (salute, fame, etc.), o secondario (play station, telefonino, etc.) non fa molta differenza. Una parte dell’umanità vive sul bisogno reale o indotto di un'altra parte. Ma siamo certi che qualche infermiere non sia terrorizzato dall’idea che il paziente guarisca sul serio, e che l’ortopedico non sia turbato dall’idea che il malato di ernia del disco possa guarire spontaneamente, evitando l’intervento chirurgico? Non ci vuole molto ad estendere tale attesa del "male" all’idraulico, che prega affinché il calcio distrugga la lavatrice, o al falegname, acciocché si rompa la gamba della sedia, al muratore che si augura un distacco dell’intonaco etc... Insomma se seguitassimo in questa direzione quasi in ogni lavoro di riparazione o assistenza potremmo trovare chi si augura la disgrazia altrui per assicurarsi la sua sussistenza.
E poi, da emulo d’Epimeteo, quale sospetto d’essere, mi sono anche detto: e se non ci fossero le alluvioni che scopo avrebbe la Protezione Civile? E se i piromani smettessero di bruciare i boschi, che utilità avrebbero i pompieri e la Guardia Forestale? E se non ci fossero i drogati, le mignotte, gli ex carcerati da recuperare, cosa farebbero i vari Don Tizio e Don Caio? Disoccupati anche loro e neanche più una comparsa in televisione.
A questo punto la catena causa-effetto si è amplificata nella mia mente con aristoteliche e dilaganti conseguenze psichiche che mi hanno riportato alle pessimistiche considerazioni degli Stoici e dei Cinici d’epoca romana. Spero però sia chiarissimo che, in questo breve discorso, non voglio affrontare i temi del dualismo o della necessità del Bene e del Male. Non sto facendo filosofia spiccia. Sto meditando se esista un confine fra l’altruismo gratuito… e quello a pagamento: è facile pensare che una percentuale dell’umanità lavori dividendosi fra due istanze:
- la speranza di essere utile al prossimo e di alleviarne le pene, perché legittimamente turbata dal dolore altrui;
- la speranza che il prossimo non stia affatto bene, che soffra, o che abbia fame, che abbia molte cose che si rompono, o che muoia, o più semplicemente, che abbia un qualche "bisogno". Altrimenti non avrebbe nulla da fare o forse, starebbe male a sua volta.
La prima speranza si chiama altruismo, la seconda egoismo, e l’intervento dell’altruista non è necessariamente più efficace di quello dell’egoista. Il primo, in genere, dovrebbe farlo per amore o compassione; il secondo lo fa per soldi o per potere o vanagloria. Per cui distinguere la qualità dell’aiuto solo in base agli effetti apparenti può trarre in facili inganni. Si può anche constatare che tra i "filantropi" c’è una spietata concorrenza.
Pessimismo? Forse. Ma quanto sto proponendo non ha nulla a che vedere con la compassione, con la carità e con tutte quelle virtù che creano la santità in coloro che le praticano senza, però, che nessuno lo sappia. Sto quindi delirando contro qualsiasi schema umanitario vigente. E mi rendo conto, con fastidio, che esistono un'economia del dolore, un'economia della sofferenza, e anche un'economia dell’etica. E quanto più sono mediatiche tanto più mi creano fastidio.
Tali economie, tali mercati sono sempre esistiti: o quanto è facile fare il "Savonarola" quando la stessa umanità che viene messa alla gogna diventa alimento per la nostra sussistenza! Com'è facile a Catone fare il censore, quando c’è qualcosa da censurare, e quanto è utile Catilina per l’avvocato Cicerone. A Catone, a Savonarola e a Cicerone che forse non lo hanno fatto né per lucro, né per gloria, è andata decisamente male. Ai nuovi Catoni invece va meglio e ognuno trova il suo campus dove fare commercio col disagio o il dolore altrui.
In un mondo totalmente in mano ai grandi gestori dell’economia, tale dinamica di utilizzo del disagio per trarne potere è diventata un efficacissimo strumento diabolico. Diabolico proprio perché, come scritto in quel libro capolavoro che sono Le lettere di Berlicche, una delle più grandi invenzioni del "diavolo" è la mimesi. E visto che contro i diabolici "gestori" di tali ipocrisie "planetarie" non possiamo fare quasi niente, questo mio piccolo intervento è un invito postnatalizio ai tanti amici di Simmetria più intelligenti e più profondi di me a riflettere sulle piccole ipocrisie personali: quelle della nostra coscienza esposta al pubblico, o quella segreta di cui nessuno sa nulla.
Ovviamente questo "laico sermone" di fine
Non rispondete subito, sarebbe troppo facile. Pensateci, se vi va, sub specie interioritatis.
Ah, dimenticavo, Buon Anno a Tutti.
Claudio Lanzi