Editoriale 024 Roma eterna (e i Ricordi di Famiglia)

ROMA ETERNA – S. P. Q. R. e i ricordi di famiglia
(Alarico, Trilussa, D’Annunzio… e Zia Ottorina).

In questo breve articolo si cerca di mostrare come la prisca cultura romana si nasconda a volte in alcuni forme modeste, che non è mai legittimo chiamare “minori”. Infatti assai spesso i “grandi” si son confusi tra la folla, assorbendone la linfa vitale e restituendole la sapidità che compete al populus. Viceversa non è infrequente che proprio nel populus siano stati celati alcuni degli aspetti più arcani del Genio di Roma. Roma non è mai come vorremmo che fosse, non è mai apparenza, non è mai enfasi, è sempre sostanza, nascosta a volte dietro parole burlone, sotto la superficie della sua Grandezza.

fiorin de noce,
sète venuta a Roma co’ le cioce,
e adesso la minestra nun ve piace”.

Accidenti quanto è attuale questo stornello, riciclato in modi diversi dai poeti “romaneschi” e anche dal Sor Capanna nei primi anni del ‘900.[1]
Mio nonno raccontava che il termine “ciociaro” veniva esteso ironicamente, e non sempre bonariamente, un po’ a tutti coloro che romani non erano.
Roma, ironica, sorniona e intelligente, accoglieva “burini” e castellani, cafoni e raffinati, con la stessa, equanime e scettica indifferenza e, come accadeva da millenni, tentava di “romanizzarli” o di civilizzarli senza prenderli mai troppo sul serio.
Nel “popolo” come nei nobili con la puzza sotto il naso (alla “marchese del Grillo”, per intenderci) albergava un senso, non sempre legittimo ma sicuramente assai “sentito”, della romanità; senso che traspariva nelle sue forme più diverse, a volte appassionate, altre sarcastiche, di coloro che hanno già visto e vissuto “tutto”, come appare dalle poesie del Belli, o di Trilussa,[2] o di Pascarella o, ultimo fra i poeti e gli attori romaneschi della vecchia guardia, Checco Durante.

Il dialetto romano nonostante le attuali degenerazioni, è sempre stato molto più lieve di quanto si creda, denso di accenti orgogliosi, ma generosi e caldi. L’uso della “parolaccia” non era né maggiore né minore di quello presente in altre regioni. La volgarità “aggressiva” vera e propria è invece un acquisto recente, post-bellico, populista più che popolare, che ha deturpato il dialetto in un processo d’imbarbarimento che contagia ormai tutte le regioni.
Il dialetto “romano” sfumava poi (soprattutto nell’alta borghesia, nella nobiltà papalina o in quella erede di una “paganità” mai scomparsa) in quegli accenti particolari, in quella “erre nasale” alla Petrolini, o in quella scettica eleganza alla Trilussa, nient'affatto paragonabili al cafonesco “romanesco” odierno. Anzi, fino ai primi anni del ‘900, il dialetto fu sempre un mezzo raffinatissimo e anche ostentato, per portare la frusta della satira nella maggior parte delle smaliziate espressioni dei romani, anche quando si occupavano di temi delicati, filosofici, complessi e perfino ermetici.

I romani del trentennio a cavallo tra la fine dell’800 e l’inizio del fascismo, infatti, non era stentorei e ingessati… tra un fascio littorio e un reliquario di Pio IX, come molti immaginano, ma erano anche spiritosi (questa sì che è una parola arcana!) e sapevano, intelligentemente, prendere in giro sé stessi oltre che il prossimo.
E questa è sempre stata una caratteristica costante dell’autentica tradizione romana che, pur nel rispetto totale dei principi sacrali, ha stimolato la spiritualità con lo humor.
Basta leggere le rime (ovviamente non in dialetto) di un addetto ai lavori di un secolo e mezzo prima e cioè F. M. Santinelli che, nelle sue opere d'indubbio valore, alterna sempre una sottile ironia all'esposizione della dottrina alchimica.[3] 
Per cui, a proposito di arcani, ci potrebbe sorgere l’arcanissimo dubbio che oggi, a tale cronica mancanza di spirito mostrata da alcune “frange” d’ermetici ciociari (ovviamente non ce l’abbiamo con Frosinone, città per la quale abbiamo un enorme rispetto), corrisponda una mancanza d’intelletto.
Per contro, questo senso di “appartenenza” alla romanità, questo pedigree non sempre legittimo, rappresentato anche dal “tono” dialettale, ha contribuito spesso ad alimentare la supponenza di coloro che romani avrebbero voluto essere ma non erano, e altre volte la cialtroneria di quelli che romani lo erano davvero, ma si erano dimenticati cosa voleva dire.

Ecco: è proprio questa cialtroneria, che ha ormai invaso il vivere civile e non risparmia alcun ambiente, che non ci rende più molto fieri della nostra “romanità”. E non parlo delle ordalie da stadio o delle violenze sub-urbane, ma delle squallide pretese sapienzial-esoteriche mascherate da “intellighenzia” (destrorze o sinistrorze che siano), in una polluzione di citazioni, articoli e saggi ripescati da un passato occultista più che esoterico, su cui si tenta di aggrappare l’idealizzazione della “gloria”, dello ius e del fas.
Ahinoi! la fiaba della volpe e l’uva è sempre attuale nelle sue varianti. Se non ci arrivi hai due vie d’uscita: o fingi che non ti interessi o fingi d'esserci arrivato.
Per tali signori si presta assai bene la quartina di Trilussa che ha per titolo “La lumaca

“La Lumachella de la Vanagloria
Ch’era strisciata sopra un obbelisco
Guardò la bava e disse: “Già capisco
Che lascerò un’impronta ne’ la Storia”.[4]

Purtroppo, la caccia all’”arcano” è la stessa che ha prodotto quegli strani arrembaggi ai documenti o alle “reliquie” di uomini e donne dalla grande anima, il cui pensiero è stato stracciato, usurpato e stravolto dai cercatori di scoop che desiderano lasciare una bava nella storia.[5]
Infatti,  la “filologia”, modernamente intesa, (non come quella di Marziano Capella, ch’era di ben altra sostanza, e infatti si sposa con Mercurio)[6] può produrre danni immensi alla conoscenza della storia; proprio perché è una scienza d’analisi che si presta alla manipolazione, includendo o escludendo fattori documentali che finiscono per snaturare completamente il significato di un evento storico o perfino di una corrente di pensiero.

In mezzo a tale bagarre, in preda al consueto ironico ma romanissimo sconforto che accompagna questa parte della mia esistenza terrena, qualche giorno fa ho riaperto dei vecchi raccoglitori e ho ritrovato alcune tracce dell’ambiente in cui sono nato; quell’ambiente in cui Roma era ancora Roma, e non quella caricatura che ad alcuni, “piacerebbe” che fosse stata Roma.
Ho ritrovato le tracce delle ricerche di mio nonno Alarico, indaffarato a decriptare alcune epigrafi che Giacomo Boni gli affidava durante gli scavi nel Palatino. Ho ricordato gli aneddoti tramandati da mio padre, nel periodo in cui Boni scavava (e spesso, a ragione, ricopriva) particolari impianti sulla Via Sacra. A quei tempi (nel secondo decennio del ‘900), Alarico si alternava tra le varie associazioni culturali allora in auge (cfr. alcune copie dei frontespizi provenienti dal suo archivio).

Ma a lui, come a tanti altri personaggi assai più “noti”, che frequentavano le scuole romane di Vera conoscenza e non solo di cultura, non importava affatto di dimostrare i “bollini blu” conseguiti. Non c’erano, per lo meno in alcuni ambienti, arrampicate esoteriche da fare. E proprio l’arrivismo oggi imperante mi spinge, per la prima volta, a rendere onore a un uomo coltissimo, generoso, coraggioso e schivo, che è vissuto silenziosamente, aiutando altri a emergere e a “mostrare” ciò che assai spesso era frutto del suo lavoro.
Per farlo non scassinerò volgarmente (com'è d’uopo che si faccia ai nostri giorni) le sue carte, le sue ricerche personali. Non devo dimostrare nulla a nessuno e non ho alcun “primato” da rivendicare. Ricordo però, con tanta malinconia, il suo entusiasmo in mezzo a tante difficoltà economiche, i suoi rapporti col Boni, col Taurisano, col Bhertiér e le sue ricerche sul sacro Vulcano Laziale, i sui studi sulla Roma Arcana e sotterranea (alcuni dei quali mi riservo di ripubblicare). Ricordo alcune “passeggiate” nella provincia romana: nei templi di Preneste, o di Zagarolo o di Genazzano, le analisi e gli scavi nei sotterranei del Velabrum, o nei penetrali delle labirintiche cripte delle chiese Romane dell’Aventino, del Celio, del Gianicolo. Quei posti cioè su cui lui conduceva amici assai più famosi, in una cerchia di romani che andavano a spasso per quell’Urbe Arcana, di cui molti straparlano. Ricordo, e grazie a Dio me n'è rimasto qualcosa, la sua preziosa biblioteca “archeologica” di volumi in pergamena. 

A quei tempi la stragrande maggioranza delle ricerche partivano dall'oceanica biblioteca Apostolica, dove lo spropositato Archivio Segreto Vaticano aveva, con gran parsimonia, riaperto i suoi battenti (cfr. copia di una delle prime “tessere”).
Frequentavano tale sito determinati personaggi, guidati da alcuni esponenti illuminati e spaventosamente “colti” della chiesa o della nobiltà cittadina (che avevano ancora nelle loro case strani passaggi che conducevano anche al disotto del letto del Tevere) o dagli eredi di alcune confraternite e delle compagnie d’arte e mestieri, o infine da alcuni esseri speciali e solitari, studiavano su libri e documenti (rari anche allora) come alcuni di quelli di cui mostriamo le prime pagine, e in cui compaiono indicazioni particolari, che molto svelano sulla Roma cristiana, ma assai più sulle vestigia e i siti della Roma pagana.

Dentro e dietro le magnifiche associazioni degli anni ‘20 e ‘30 agivano spesso questi personaggi particolari, come appunto il Boni, Bhertièr, De Giorgio, Taurisano e tanti altri conosciuti e sconosciuti. Ma sicuramente furono più interessanti quelli “sconosciuti” o per lo meno, conosciuti a pochi, e che si sono premurati di non mandare in giro i loro scritti riservati. Un po’ com'è accaduto assai più tardi per Rota, di cui tutti conoscevano l’abilità di musicista e quasi nessuno la sua amicizia con Verginelli e la sua immensa biblioteca ermetica. Almeno costoro non hanno contribuito ad avallare la presunzione di nessun “ermetista romano dell’ultim’ora”!

Io non ho mai parlato o straparlato di tali personaggi e mai lo farò: però, quando a volte le sento sparare grosse, in questa caccia alla legittimazione iniziatica, mi viene voglia d'infrangere il “patto antico” (come recita la vecchia Canzone del Piave) e di cantarle di santa ragione. Ma poi mi soccorrono le espressioni sarcastiche stampate sui ritratti degli Avi, giù per li rami della nostra antica, famiglia romana. E mi sovvengono anche gli straordinari volti di quegli amici che congiungevano il satirico e scanzonato modus vivendi “romano” alla serietà del cercatore, dello studioso.
Mi ricordo le storie che raccontava mio padre o la mia pro-zia, sul già citato Trilussa, che compare nella foto il giorno del diploma in “ragioneria” insieme alla mia bellissima pro-pro-zia Ottorina, anche lei, diciottenne, nella foto con Trilussa e poi, venticinquenne, in “posa” secondo il costume degli inizi del secolo. (Eh, accidenti se era bella, e si chiamava proprio così: Ottorina!).

Trilussa, questo essere abbastanza solitario, misterioso, questo specialista nel disegnar “somari”, aveva sempre consigli scanzonati e acutissimi, che proponeva in quel suo romanesco un po’ snob. Elegante, raffinato e mai superato, lontano dal dialetto più popolano di Belli o di Zanazzo. Anche lui, tirato per la giacca dal fascismo, dalla massoneria, dalle sinistre e dalle destre, ma troppo nobile di cuore e di mente, per farsi abbindolare dai “potentati” che aveva sempre ridicolizzato.

“Un somaro Monarchico italiano
Disse a un Ciuccio francese:
- Felice te che sei repubblicano!
Io invece devo sta sotto a un padrone
Che me se succhia er sangue e che me carica
La groppa co le palle der cannone!
Proprio nun je la fo, caro compagno!
Er peso è troppo forte in proporzione
De li torzi de broccolo che magno!
Spessissimo succede che me lagno,
Ma quello se ne buggera e me sona
L’Inno reale mentre me bastona…
- Tutto er monno è paese:
- disse er Ciuccio francese -
Defatti puro er mio fa tale e quale,
ma invece de sonà l’Inno Reale
canta la Marsijese…

Ecco, questa poesia (che trovasi anche in altre raccolte) l’ho ritrovata autografa, insieme ad alcune altre sue e di D’Annunzio.
Aspettarono quasi che morisse per farlo senatore, Trilussa, ma a lui non importava nulla. Sempre inseguito da ristrettezze economiche, filosofo nell’animo e profondo conoscitore di Roma, salutò il mondo con queste parole straordinarie:

La strada è lunga, ma er dappiù l’ho fatto
So dov’arivo e nun me pijo pena.
Ciò er core in pace e l’anima serena
Der savio che s’ammaschera da matto.
Se me frulla un pensiero che me scoccia
Me fermo a beve e chiedo aiuto ar vino:
poi me la canto e seguito er cammino
cor destino in saccoccia”.

E scusate se è poco, anche dal punto di vista spirituale.

Ed ecco, da un libretto d’opera della Manon, riscritto a mano, saltar fuori la foto “ufficiale” del comandante Umberto Maddalena (il pluridecorato sorvolatore dell’atlantico, nonché pilota della marina: quello che trovò la tenda rossa di Nobile, e che morì in volo, come probabilmente desiderava). Aspirava alla mano della giovane Ottorina il bel comandante, cercando di superare la guardia inflessibile delle altre due sorelle-gendarmi. E non era solo un militare e un pilota di idrovolanti: sapeva volare anche con l’anima, scriveva splendide poesie, e sapeva vedere il mondo dall’alto.
A lui, che accusava mia zia di essere un pochino “ribelle” e scontrosa, Ottorina inviò questo suo “autoritratto” giovanile agrodolce (che aveva scritto anni prima):

“Vita, collo, gambe e braccia
Ti rammentan Don Chisciotte,
Bruna, dura, aguzza faccia,
Chioma nera come notte
Occhi pisti, da tragedia
Folte e scure sopracciglia,
Lungo naso che s’insedia
Sulla bocca ampia e vermiglia.
Questo è il fisico. Il morale
Non saprei certo descrivere…
Metti insieme un po’ di sale
Il veleno di tre vipere,
Crema, aceto; nel totale
Hai il liquor che mi fa vivere”.

Beh, non ci si deve stupire se il Maddalena preferì trasvolare ancora un po’ di volte l’Atlantico.

Un mare di libri, di documenti storici e di personaggi famosi e sconosciuti escono fuori dai vecchi raccoglitori. E nel pescare in mezzo a tanti ricordi che, forse ingiustamente, mi sembrano così lontani dall’attuale mondo accaparratore e dalla moderna cialtroneria, una poesia di D’annunzio scritta su un foglio ingiallito mi ricorda un altro aneddoto d'inizio secolo, relativo alla mia affascinante pro-zia. Ottorina era assai incerta su cosa avrebbe dovuto dire a Gabriele D’Annunzio che, dopo averle regalato una volpe che le aveva semidistrutto il “salotto buono” le faceva la corte (con scarso successo, in quanto era alto la metà del necessario). Fu proprio durante un “thè” in casa delle ricche e simpatiche “Sorelle Adamoli” (proprietarie di un grandissimo e famoso negozio vicino alla Stazione Termini) a base di biscotti, velette, trine, pizzi, baffetti e bastoncini di bamboo, che Trilussa le venne in soccorso, osando dire al “vate”: “ma lassa perde, nun lo vedi quant’è arta?” 

Ecco, mutatis mutandis, anche noi diciamo, sorridendo e ben lontani dall’arguzia del Salustri, la stessa cosa a tutti coloro che non sanno bene ciò di cui parlano, che non sono abbastanza “alti”, o che, più semplicemente, sono in preda all’orticaria da potere e da “visibilità”:

Lassate perde, regà, ma nun lo vedete quant’è arto?” (…ehem, parlo del Genio di Roma, ovviamente).

Claudio Lanzi


 [1] Il Sor Capanna (Pietro Rezzonico), stornellatore romano nato nel 1865, figlio di un “pastarellaro”, girava per Roma con un autentico “carro di Tespi”, accompagnato alla chitarra dalla moglie Augusta Sabbadini. Fu autore di stornelli popolari, a volte ferocemente satirici, il più noto dei quali è sicuramente:

Sentite che ve dice er Sor Capanna
ch’er millenovecento s’avvicina.
ritornino li tempi de la manna,
a uffa ce la danno la benzina.
Ma speramo ar novecento,
finirà questo tormento
c
on bon lavoro
rifiorirà sto secolo dell’oro
...”

E poi proseguiva caustico…

Ma ggià sso ventottanni che godemo
che stamo tra li beni e la ricchezza;
la libertà gni giorno la vedemo,
…m’addosso semo pieni de monnezza…”

E così via. Oppure scivolava nello scurrile

C’è a piazza de le Terme un fontanone
co’ quattro donne ignude a pecorone
pe fa mejio venì la tentazzione
a chi vorrebbe facce er pomicione.
Ma c’è in mezzo un’omo ardito
che funziona da marito
sto coso strano
annaffia a tutte quente er deretano
”.

[2] Il sarcasmo e lo scetticismo romano è efficacemente espresso da questo incipit di Trilussa nella sua celebre poesia intitolata  Il discorso della Corona del 1910 in cui immagina che a parlare sia Vittorio Emanuele  III.
Signori deputati!
Credo che su per giù sarete tutti
Mezzi somari e mezzi farabbutti
Come quell’antri che ce so’ già stati”

…e termina con:
Defatti la Repubblica s’addorme
davanti a li ritratti de Mazzini
er Socialismo cerca li quatrini, sconta cambiali e studia le riforme
e quello de la barca de san Pietro
nun sa se remà avanti o remà addietro
”.

Attuale no?

[3] Cfr. F. M. Santinelli, Sonetti alchemici a cura di A. M. Partini, ed. Med 2005.

[4] Ancor più adatto ci sembra un vecchio proverbio citato anche da Giggi Zanazzo nel suo Proverbi Romaneschi (1886) che recita:
“Quando San Pavolo cascò da cavallo disse: Intanto volevo scenne”.

[5] Cfr. il vero e proprio “massacro” che alcuni moderni filologo-ermetisti hanno fatto di Ciro Formisano (Kremmerz), di Paolo Marchetti (Virio), di Schwaller De Lubicz, di Julius Evola e di tanti altri, estrapolando a piacere le parti dei testi che risultavano utili per mostrarne illibatezze o nefandezze. Tutti costoro hanno, in genere, sempre accuratamente evitato di approfondire la filosofia di sostegno di coloro che criticavano.
 
[6] Marziano CapellaLe Nozze di Filologia e Mercurio - nella recente edizione di Bompiani, 2001.

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