Ovvero “tra il dire e il fare”
Senza voler essere catastrofisti e lasciarsi sfuggire la frase “ai miei tempi”, non possiamo evitare d'insistere sulla gravità dell’accelerazione spasmodica degli elementi dissolutivi di quest’epoca. Purtroppo l’età porta a un confronto, non tanto con energie o entusiasmi che non si hanno più (il che spiegherebbe il lasciarsi andare alle scempiaggini sui “giovani d’oggi”) quanto con le memorie di un mos desueto, di un ambiente totalmente stravolto nell’arco di un cinquantennio. Il confronto non è quindi con una “morale decaduta”, ma con una natura violentata, che comporta una percezione della “realtà” deformata dalla tecnologia e da un territorio modificato nei contenuti e nella forma.
Capita spesso di osservare che nelle città non si veda più il cielo, che nessuno possa immaginare di vivere senza sms o e-mail, e che pochissimi ricordino l’odore della pioggia sulle strade in terra battuta e non asfaltate. Eppure l’osservazione del cielo, della terra e la comunicazione verbale e diretta erano i mezzi alla base della contemplazione, del contatto umano e dello scambio con la natura.
Trasferire tutto questo nel caos asfaltato, plastificato, mercificato, e accelerato di un mondo che ha totalmente cambiato volto in pochi decenni non vuol dire fare dei semplici “adattamenti”; vuol dire gettare al vento millenni di osmosi con la natura e con gli Dei, vuol dire abbrutire la possibilità di contatto con la metafisica, vuol dire rendere di plastica anche qualsiasi messaggio tradizionale.
Trasferire tutto questo nel caos asfaltato, plastificato, mercificato, e accelerato di un mondo che ha totalmente cambiato volto in pochi decenni non vuol dire fare dei semplici “adattamenti”; vuol dire gettare al vento millenni di osmosi con la natura e con gli Dei, vuol dire abbrutire la possibilità di contatto con la metafisica, vuol dire rendere di plastica anche qualsiasi messaggio tradizionale.
Fingere di non vedere questo disastro vuol dire perdere la voglia di testimoniare, con semplicità e chiarezza, quel poco che è ancora testimoniabile (molto poco, in verità); vuol dire rifugiarsi dentro casa propria e smettere di credere al prossimo e a una qualsiasi possibilità di riscatto. E, nonostante tutto noi ci crediamo ancora, senza enfasi né proclami, ma con un briciolo di speranza.
In tale situazione il prossimo è rappresentato anche da quegli eserciti di “praticanti”, transfughi dal cristianesimo, dall’induismo, dal protestantesimo e perfino dall’islamismo, che cercano il loro approdo spirituale all’interno di gruppi, sette, confraternite para-esoteriche improvvisate o deformate o plastificate.
Per la verità, nella maggior parte dei casi, ciò che viene cercato è solo un palcoscenico gratificante e credibile, dove qualche volta si recita, altre volte si fa parte del pubblico; l’idea “forte” e coinvolgente di tale palcoscenico è quella di essere all’interno di una commedia importante, dove c’è il solito personaggio in cerca d’autore; e non per nulla tale ipotesi ha affascinato il genio di Pirandello. Ovviamente, in questa Babilonia mediatica, tutti pencolano nell’incertezza se assumere il ruolo del personaggio o se tentare la scalata a quello dell’autore (ma si tratta di gente che non ha capito nulla di Pirandello).
Sulle ragioni profonde di tali trasmigrazioni abbiamo discusso in altre occasioni ma lo stravolgimento economico e territoriale del nostro pianeta ne rappresenta sicuramente sia una causa che un effetto.

L’assoluta assenza di regole, trasmissioni e legittimazioni ha fatto sì che oggi sia impossibile distinguere qualcosa che abbia un carattere di autentica VIA (e che perciò conduca anche in una direzione che sia assimilabile a una “categoria” spirituale) dal pelago melmoso del “fai da te”, fatto di un cocktail di discipline, in parte autentiche e in parte inventate di sana pianta.
Forse è giusto così. Forse a una disciplina male accettata e mal digerita è preferibile un caos generalizzato, mimetizzato da nuova spiritualità? Mi sono trovato spesso a domandare a tali transfughi, soprattutto se giovani: Ma dove stai andando? E dopo le solite risposte esecrabili del tipo: “sto facendo un percorso”, oppure banali sul tipo: “verso la conoscenza”, “verso l’illuminazione”, “verso la luce”, o infine quelle più modeste del genere: “verso la ricerca di me”, ho spesso visto, ma solo per un’istante, il terrore negli occhi delle persone interrogate. Il terrore di coloro che questa domanda non avevano osato farsela fino in fondo. E mi son detto: forse è meglio che non se la facciano.
Questo fenomeno della ricerca caotica e raffazzonata è caratteristico di tutti i periodi di decadenza (come i primi secoli d.C. dell’Impero Romano) dove, tra culti esotici e sincretismi, non erano più distinguibile la provenienza né la legittimità, né la “regolarità” di alcun rito. La menade che compare nella figura qui sopra è una classica rappresentazione di un periodo in cui anche il dionisismo, abbandonate le iniziazioni selettive, accorpava i riti più eterogenei in sarabande che assomigliavano vagamente agli odierni rave party e che preoccupavano notevolmente imperatori e classi sacerdotali fino al punto di vietarli.
Ma tali “culti” inquinati, tali usurpazioni, non sorgevano e non sorgono mai ex nihilo: è la desolazione, il caos, la paura, l’ansia, l’inseguimento bulimico di falsi obiettivi, l’incertezza della conservazione e condivisione di “valori” autentici, che produce quest'agitarsi convulso.
In tale magma confusionario (anche se, a volte, filosoficamente assai agguerrito) migliaia di persone “divinizzano” il guru (che spesso e volentieri è un vero e proprio cialtrone, altre volte un invasato, altre uno studioso “volenteroso”) e ne diventano compiaciute vittime del suo carisma (“terribilisissima” espressione mediata dal greco chàrisma, che dovrebbe voler dire “dimostrazione della grazia o dono”, diventato invece espressione di fascino o prestigio o millantato credito personale).
Nei casi di strutture o di piccoli gruppi con valenza misteriosofica, il disastro è assicurato e irreversibile (parlo anche degli specchietti per le allodole, costituiti da specifici giornali misteriosofici, dove si straparla di tutto). E purtroppo le centinaia di migliaia di persone confluite in queste piccole bolgie intercomunicanti, come i vasi d’ascendenza archimedea, subiscono una “embolia” dei tessuti intellettuali o emozionali e hanno ben poche possibilità di scoprire la fine che stanno facendo.
L’elemento consolatorio e pseudo-salvifico offerto dai guide, a volte assistite da “entità” spiritualmente avanzate, quando non da “extraterrestri con cerchio sul grano incorporato”, da “anime liberate”, o da “guru erotici e guaritori tantrici”, da “misuratori di feng shui”, da “rifacitori di riti romani scomparsi”, da “depositari dei mantra ripetitivi salvifici”, da “cultori dell’esoterismo marziale” è talmente semplice e comodo che ormai assorbe i frustrati millenaristi a vario titolo, tutti protesi a “sentire” l’arrivo di qualcosa di “stellare”, “luminoso”, “carismatico” e affogati nell’illusione più banale, ipnotica, falsamente ascetica ma, ovviamente “terapeutica”. A costoro non possiamo dire più nulla. Il plagio è avvenuto.
Questo problema perciò riguarda strutture grandi e consolidate, che non hanno alcun interesse ad apparire nei media pur avendo migliaia di “affiliati”.
Abbiamo parzialmente trattato tali temi in due libretti molto sempici [1] ma crediamo che le previsioni contenute in tali testi siano ormai ampiamente superate dalla realtà dei fatti. Infatti perfino tra i nostri lettori pochi riconoscono di essere scivolati a volte (o aver rischiato di scivolare) in tali trappole. Una delle caratteristiche della trappola, infatti, è quella di sembrare un'elargizione, un dono, una garanzia.
Ma se Simmetria, che da tanti anni cerchiamo di conservare nello spirito con cui è stato fondata, può servire ancora a qualcosa, val la pena di rivolgersi ai giovani almeno per metterli sull’avviso. Soprattutto ai giovani intelligenti e intellettuali, ma non abituati a discriminare in questo caos spirituale, a questi giovani irretiti in tali strutture prive di qualsiasi collegamento tradizionale diciamo: leggete Guénon, leggete Comaraswami, leggete Florenskij! Anche se non tutto ciò che dicono sarà compreso e condiviso (o condivisibile) essi rappresentano, ancora in quest’epoca, una possibilità di orientamento, un invito alla riflessione, un ultimo barlume d’intelligenza e di possibilità di scegliere e non di esser scelti. E poi leggete anche qualcosa di Simmetria se vi fa piacere. Ma questo lo fate già.
Infatti, qualcosa di autentico e di sano, forse, esiste ancora e abbiamo il dovere di cercarlo anche se non possiamo esser certi d'avere il diritto di conseguirlo. E perciò, una volta poste al nostro vaglio personale (assai misero in verità), le teorie e le elucubrazioni delle sedicenti scuole, e una volta supposto che si sia trovato un approdo che conservi un filo d'autenticità (per la metodologia su tale ricerca rinvio ancora ai due libretti citati), si tratta di praticare e studiare. Per i filoni exoterici-religiosi ciò può sembrare abbastanza semplice: esistono codici etici o “catechismi”, e codici “liturgici"; il rispetto dei quali consente, almeno formalmente, l’adesione e il perseguimento di una via “salvifica”.
E, proprio per tale ragione, con una convinzione che un tempo non ci saremmo mai sognati, diciamo con forza: evviva gli exoterismi religiosi (non i fanatismi ovviamente), evviva le liturgie, i catechismi d’ogni razza, evviva le signore che si riuniscono ancora da qualche parte a recitare il Rosario, evviva le monache di clausura, evviva i monaci tibetani, induisti, cristiani o musulmani, o di qualsiasi altra provenienza, che praticano le loro devozioni nel silenzio delle loro celle o nelle manifestazioni liturgiche collettive. Evviva tutti costoro, perché consentono il mantenimento di una tradizione, la sua perpetuazione e mantengono vivo il collegamento con l’Origine, con lo Spirito agente, che ha “iniziato” e invece di dire o inventarsi pratiche inesistenti,… praticano le loro!
E se schiere di esoteristi “autoiniziati” pensano di saperne di più, ci permettiamo di obiettare che se molti di costoro studiassero e soprattutto praticassero in dettaglio le liturgie e i catechismi delle rispettive religioni, vi scoprirebbero fiumi di “pratica” e di esoterismi della cui esistenza non hanno mai sospettato.
Ma, indipendentemente dallo scorrettissimo uso che ormai si fa della parola “esoterico”, forse in ragione della sua recente coniazione, non esiste cammino, percorso spirituale, via salvifica, etc. che non si sviluppi in ragione della volontà, della necessità interiore del praticante.
Volontà vuol dire decidere di “utilizzare gli strumenti di Scuola” con perseveranza, ma soprattutto con amore, sottoponendosi sempre al vaglio dell’intuito e della ragione con la compagnia di un Maestro autentico (altrimenti sono guai). Se si è miracolosamente approdati in una scuola di questo tipo (ormai quasi introvabile) vuol dire che non è stato semplice entrare. Vuol dire essere arrivati faticosamente dal Maestro e non che il Maestro è venuto a cercarci. Ma vuol dire anche che sarà sempre facile uscirne. Ecco: la valutazione della grandezza della porta di uscita è assolutamente utile per misurare l’autenticità di una Scuola o di un maestro. Se la porta di uscita è stretta, è un gran brutto segno. Il contrario vale per quella d’entrata, ovviamente.
A questo punto facciamo finalmente onore al sottotitolo di questo editoriale: “tra il dire e il fare”.
E domandiamoci quanto sia stata vasta, nella nostra vita, l’indagine su quel mare che esiste proprio fra il dire e il fare. Quanto la pratica abbia fatto seguito allo studio, o viceversa quanto lo studio abbia fatto seguito alla pratica. Quanto la ricerca di gratificazione sia prevalsa sulla ricerca disinteressata. Quanto il detto che compare nell’immagine che precede, proveniente da Palazzo Farnese a Caprarola, sia stato assimilato nella sua profondità. E se qualcuno è arrivato a leggere fin qui si sarà domandato: E allora? E allora bisogna fare. Operare. Ma soprattutto testimoniare che questa Babilonia nella quale stiamo affogando avrebbe potuto essere assai diversa.
Vorremmo allora condividere una conclusione ottimistica, ricordando a tutti gli amici lettori che c’è un Canone utilissimo per non perdersi dietro l’akedia o dietro la distrazione, o per resistere al “vento infernal che mai non resta” di questa fabbrica di rumori, un canone infallibile, per studiare con coerenza e "per conseguir virtute e canoscenza”, un canone utile a ogni allievo e a ogni maestro (soprattutto a quelli convinti d’esserlo), un canone universale, sempre applicabile, affilato come una spada un canone geniale, noto agli orfici e ai pitagorici, ai romani, ai greci, ai taoisti e ai mazdei, agli egizi e agli aztechi.
Si tratta di un canone applicabile indifferentemente e impietosamente, come misura per docenti e discenti, un canone straordinario che proviene dagli abissi del tempo; che possiede alcune varianti forti fra una tradizione e l’altra, ma che, nella sostanza, dà ragione a Guénon sul principio dell'unità trascendente.
Tale canone, da noi, nell’Occidente cristiano, ha trovato spiegazione e codificazione con Properzio che, ispirandosi in parte a Platone, l'ha organizzato nelle quattro virtù cardinali e nelle tre teologali. Banale? No. Profondamente, anzi, terribilmente semplice. Però adatto esclusivamente ai coraggiosi. Quindi è un Canone per pochi.
Chi l'ha studiato sul serio ne è rimasto abbagliato, stupito; è di un’efficacia micidiale, risolutiva, realizzativa, e può sconfiggere qualsiasi dubbio e aprire ogni porta. Qualcuno ne dubita? Giusto. Provare per credere: ovviamente per anni e anni e anni. Altrimenti non funziona. E poi bisogna trovare un pellegrino vero, o un Anonimo francofortese, che ancora lo conosca bene e sia disposto a insegnarcelo.
Ma soprattutto bisogna aver voglia di studiarlo.