OLTRE LA SOGLIA
Brevi considerazione sulla iniziazione post mortale nel giudeo cristianesimo e in altre tradizioni
Antonio Bonifacio
Il destino dell’anima dopo la morte per il cristianesimo
“Ci sono alcuni che redimono i loro morti per premunire il loro passaggio. Infatti alcuni di questi mischiando olio con acqua, lo versano sul capo del partente. Costoro hanno come essenza profumata, il detto balsamo e acqua insieme con la comune invocazione che usano per diventare imprendibili e invisibili ai Principati superni e alle Podestà e perché il loro uomo interiore possa ascendere non visto; quasi essi siano di quasi essi siano di quelli che lasciano il loro corpo tra le creature mentre invece l’anima loro è diretta al Demiurgo” (Ireneo: Adversus Haereses: I, XXI)
“Tu, infiammata dal desiderio della luce paterna, sorella e sposa, mia Sofia, Unta nei bagni del Cristo con unguento sacro, imperituro, ti sei affrettata a contemplare le divine facce degli eòni, il grande Angelo del grande Consiglio, il figlio vero, correndo verso la Camera Nuziale, e slanciandoti, immortale, verso il seno del Padre»” (Epitaffio “valentiniano” di Flavia Sofia)
Una delle singolarità più evidenti che emergono dai lavori di alcuni studiosi specializzati nel giudeo cristianesimo è l’individuazione - apparentemente paradossale - di una inedita e, davvero sorprendente, “iniziazione dei defunti”. Tale forma iniziatica si esplicherebbe attraverso il compimento di un preordinato itinerario cosmico dell’anima, come parimenti accade nell'iniziazione dei viventi. Questa particolare specificità iniziatica ha quindi delle modalità parallele a quella destinata ai praticanti, supponendosi perciò che un quid “animico” possa ancora essere in grado di “agire” volitivamente una volta che esso sia slegato dall’apparato sensorio di natura caduca.
In questo primigenio cristianesimo tale ritualità, come detto, è ben testimoniata da un significativo apparato documentale che convisse, finché potette, con quello sempre più invadente imposto della Grande Chiesa ormai “imperializzata”. Colui che è stato probabilmente il più competente studioso del protocristianesimo palestinese, ovvero padre Emmanuele Testa. così sinteticamente scrive della circostanza: “Da ciò si può senz’altro concludere che l’iniziazione dei morti era un elemento comune alla corrente giudeo-cristiana più o meno ortodossa” (E. Testa: 2004 ,117).
Da questo brano si ricava, come diretta conseguenza, che all’anima è conferita la possibilità nello stato agonico o, addirittura, dopo il decesso, di lottare in suo favore per ottenere un destino ultraterreno congruo al suo “desiderio”, alla nostalgia propria “dell’esule” che, ormai, rotto ogni laccio con l'apparato sensorio "grossolano", arde per tornare nella sua terra natia. Non solo, quindi, occorre “salvarsi”, ci si propone di più, ben di più. Dantescamente lo scopo del viaggio è l’indiarsi e compiere ciò nel mezzo del cammin di nostra vita, tuttavia, se questo non è possibile, rimane in piedi l’opportunità di operare quando ormai “tutto è compiuto” e per ottenere ciò è necessario attrezzare convenientemente l’anima all’exitus. Questa indicazione, caduta nel dimenticatoio nella contemporaneità, offre un terreno di comparazione con altre tradizioni che appare davvero fertile e perspicuo, in riferimento alle modalità di svolgimento di questi peculiari riti esequiali.
Ci permettiamo di aggiungere una riflessione-inciso sul tema, annotando come i ricercatori, che hanno indagato sulle varie prospettive soteriologiche, che si esamineranno e che sono grossolanamente sincroniche tra loro - salvo l’Egitto, i cui “Libri dei morti” sono molto antecedenti a quest’epoca -, non sembrano tenere affatto conto della possibilità della presenza di un pregresso retroterra, latamente sciamanico, che potrebbe aver fornito, nella sua complessa e articolata psicocosmologia ultramillenaria, il telaio su cui si sono diversamente costituite le varie articolazioni del tema nei secoli successivi.
Parliamo della concreta possibilità della preesistenza di una possibile sorta di fonte “Q”, magari universale, che affonda davvero nella notte dei tempi e che potrebbe essere posta alla base di una qualsiasi esperienza di viaggio celeste, avendo dei tratti di forte similitudine con i viaggi oltremondani delle religioni, per così dire, “superiori”.
Facciamo perciò di nuova nostra la riflessione, già accolta in altre circostanze, di Holger Kalweit e la deponiamo davanti al lettore lasciandolo completamente libero nel giudizio circa la congruità della proposta comparazione.
Questi scrive: “La ricerca moderna sulla morte e gli stati extracorporei non fa ora che seguire le orme degli sciamani. Il fine, in condizioni sperimentali sistematicamente controllate, è quello di separare questo qualcosa – anima, coscienza, corpo bioplasmico, o comunque si voglia chiamare - dal corpo. Quando riusciremo a inviare volontariamente gli esseri umani nel ‘regno dei morti’? Una cosa è certa, ed è stata comunicata da tutti coloro che sono ‘tornati indietro’: il viaggio nel regno dei morti è l’ultimo passo di tutte le terapie, la fonte della salute e dei poteri risanatori, lo scopo ultimo di tutte le vecchie religioni, come pure di tutte le nostre ricerche metapsichiche e metafisiche”. (Holger Kalweit: 1996, 45). Non per nulla tutti i "viaggi cosmici", ovvero le psicanodie, che ci giungono dall'antichità recano tracce residue di un evidente sostrato sciamanico. In termini di un confronto grossolano e impressionistico, si può rimandare la memoria a una serie di epopee mitiche che hanno a che fare con il viaggio nell’Altrove, ovvero: il viaggio di Gilgamesh, quello di Ulisse, di Enea, nonché i viaggi dei mistici ebrei del Carro Celeste e dei Palazzi Celesti, nonché il viaggio di Enoch, per non parlare della kabbala e inoltre, cambiando totalmente ambiente e orizzonte culturale, il viaggio del miste mitraico attraverso i cieli.
Ora, in questa disamina, procediamo necessariamente per gradi partendo dalla concezione attuale che si ha del destino postmortale dell’anima, così come discende dal catechismo della Chiesa cattolica.
L'uomo è unione di anima e corpo; tuttavia l'anima dopo la morte del corpo sopravvive a esso e resta in attesa di riunirsene quando questo sarà, infine, trasfigurato e reso incorruttibile dopo il Giudizio Universale.
Per questo, immediatamente dopo l’exitus, l'anima è sottoposta al “giudizio particolare”, anticipazione di quello Universale, col quale conosce se l’aspetta l'Inferno o, all’opposto, il Paradiso, e se questo le è accessibile subito o solo dopo la purificazione del Purgatorio.
Questa è la concezione dogmatica che è descritta dai Quattro Novissimi
Fig. 1 - Immagine dall'Ars Moriendi (scritto tra 1415 e il 1450).
Il morente è circondato da angeli e demoni che attendono l'anima nel suo distacco definitivo. Secondo la concezione dell'Aquinate l'uomo è un tutto inscindibile tra anima e corpo. Da ciò discende che mentre l'anima deve subire l'immediato giudizio, il corpo dovrà attendere quello Universale per risorgere e riunirsi all'anima nella condizione in cui essa già si trova. Tale mancanza di sincronia tra i due eventi ha fatto sì che il 1 novembre 1331 papa Giovanni XXII, in Avignone, insegnasse che le anime sante non godono della visione di Dio fino al Giudizio Universale. Ciò indusse un grandissimo scandalo che scosse il mondo cattolico di allora fino alle fondamenta. Ciononostante Giovanni XXII mantenne la sua dottrina fino alla sera precedente della sua morte quando, dinanzi ai cardinali, pronunciò quella ritrattazione che rimane - come suggerisce il filosofo Andrea Vaccaro, autore di un corposo studio sull'argomento -, per abilità dialettica e varietà di interpretazione, uno dei più sottili documenti della storia della Chiesa medievale. Infine Il 29 gennaio 1336, papa Benedetto XII, successore di Giovanni XXII e suo grande amico, definisce dogmaticamente che le anime sante godono della visione di Dio subito dopo la separazione dal corpo, chiudendo di fatto ogni discorso. Tuttavia il dubbio di fondo rimane e si concreta nella domanda: "E se le anime godono già della beatitudine, a cosa giova il corpo che dovrà risorgere..?".
Fonte immagine https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/a/a3/Temptation_from_Faith.jpg (pubblico dominio)
Il concetto così drasticamente rappreso, e così rapidamente esposto, richiede una breve puntualizzazione. Intorno a questo tema annota difatti Marco Toti che, malgrado la cesura irreversibile che separa lo stato agonico estremo e la morte vera e propria - in cui tutto appare compiuto e diversamente dagli insegnamenti della Chiesa d’Oriente -, nella circostanza rimane aperta una finestra "cairologica" di indeterminabile durata che consentirebbe all’anima di “salvarsi” anche se già aspramente contesa in quel combattimento spirituale, senza esclusione di colpi, in cui si fronteggiano angeli e demoni. Per conseguenza esisterebbe, anche nel cattolicesimo “canonico”, un frammento temporale estremo ma sufficiente a che l’anima possa ancora intervenire per orientare favorevolmente il suo imminente destino e quindi sottrarsi al suo "karma" manifestando il suo pentimento. Scrive a tal proposito il predetto ricercatore “L’estrema possibilità per l’uomo è data dall’intersecarsi dell’ultimo momento della vita presente, in cui può operare una scelta in modo umano, ed il primo momento in cui l’anima può agire “in modo angelico”, fissando il suo stato per l’eternità; questo punto di intersezione è l’istante non temporale della morte” (Marco Toti: Alcune osservazioni sulla escatologia intermedia).
Un’altra riflessione deve essere anteposta ad ogni altra ulteriore considerazione per inquadrare opportunamente il tema. Sebbene nel giudeo-cristianesimo si parifichi sostanzialmente l’iniziazione dei vivi a quella dei morti, v’è però un appunto essenziale da tenere presente, latitudinalmente comune. Il “salvarsi”, nel post mortem, dal punto di vista dell’iniziazione intesa come capacità di mutare lo stato ontologico, costituisce l’extrema ratio, l’ultima possibilità, il “riprendere per i capelli” una situazione compromessa profittando del momentaneo distacco degli elementi extracorporei (l’anima nel cristianesimo, la coscienza nel buddismo) dall’elemento corporeo pereunte e quindi transitorio, che si verifica per evento naturale e non per una cosciente e lucida operazione come avviene nell’iniziazione in vita. Nella pienezza delle funzioni fisiche e psichiche il ‘Maestro’ coopera con il praticante al fine di condurlo nel “qui” e nell’”ora” al "Regno di Dio" (escatologia prepartecipata). Quel Regno che è detto “dentro di voi”, una situazione che si delinea ontologicamente "superiore" rispetto a quella paradisiaca, sia che si alluda al Paradiso terrestre che celeste. Si tratta di una condizione che appare invisa a quei molti sistemi che, pur concordano sull'esistenza di questi "luoghi" o stati dell'essere nei quali l'individualità del soggetto è mantenuta a scapito della non-dualità. Quest'ultima "condizione" è da considerarsi come il fine dell'iniziazione e così, secondo alcuni competenti interpreti, si profila l'esito ultimo nella "gnosi cristiana" (gnosi cristica integrale, pneumatica). L’indicazione dell'ubicazione del Regno, seppur in modalità apocrifa, proviene dallo stesso Cristo, così come si può leggere nel vangelo copto di Tommaso in cui appare evidente che Gesù non si riferisca a nessun luogo "altro": "Se coloro che vi guidano vi dicono: Ecco il Regno (di Dio) è in cielo! allora gli uccelli del cielo vi precederanno. Se vi dicono: É nel mare! allora i pesci del mare vi precederanno. Il Regno è invece dentro di voi e fuori di voi”.
Il mantenimento dell'individualità nello stato sottile è il supporto su cui si sostiene invece l’escatologia differita (che si sostanzierebbe in una deescatologizzazione del cristianesimo), che è relativizzata a una premialità misericordiosa occupante il primo posto nella scala dei valori della soteriologia devozionale e che indica la tappa dell’Ogdoade (nel cristianesimo) come ultimo sbocco desiderabile e accessibile, seppur ugualmente con grande difficoltà. Secondo una certa linea ermeneutica di pensiero, leggendo i passaggi dei testi dedicati alla tematica in una prospettiva “gnostica”, la "salvezza" e quant'altro oltre di essa non è un passaggio obbligatoriamente differito al "dopo", piuttosto è una escatologia prepartecipata che, come detto, ha come sbocco l'indiarsi; in altre parole l'entrare nel Pleroma (e quindi "dopo" l'Ogdoade) se possibile già in vita o, altrimenti, nei momenti del trapasso o nel post-mortem avendo la possibilità iniziatica di agire utilmente anche in queste circostanze.
L.M.A. Viola ha difatti evidenziato come l’ars moriendi gnostica, propria del giudeo cristianesimo, sia stata progressivamente accantonata nella pratica rituale della “grande Chiesa”, fino a sparire. Ad essa si sono sostituite progressivamente e massicciamente nei tempi ultimi delle forme rituali che rivelano un carattere limitato, alquanto sentimentale ed esteriore.
Rileva insistentemente il predetto ricercatore che, nella iniziazione cristiana originaria, l’iniziato poteva ottenere la realizzazione completa ed efficace cui aspirava sia nello stato agonico, come in quello post-mortem. Nelle condizioni descritte potevano intervenire a supporto, con riti e parole ieratiche, altri iniziati che disponevano della disciplina propria dell’arte di morire e quindi avevano padronanza dei mezzi idonei per adiuvare il morente, che sostava nella dimensione di mezzo, e ciò al fine di evitare la caduta nelle condizioni di deliquio e quindi l’assoggettamento alle potenze demoniache/arcontiche e, in definitiva, per sostenere il suo itinerario ascensivo al culmine del cielo e quindi del Pleroma.
Tutto questo coincide, piuttosto precisamente, con gli studi di padre Testa sul tema in cui, appunto, l'autore ci partecipa dei riti d’iniziazione sia dei vivi, che per i morti, attività rituali che sono assolutamente ben incardinate in questa particolare declinazione del protocristianesimo che si è affermato proprio nei luoghi, ovvero Nazareth, che furono testimoni dei primi trenta anni della vita nascosta di Gesù.
Per costoro erano disponibili riti, istruzioni, consegne e ammaestramenti che avevano lo scopo di facilitare il buon viaggio (del "mistico" o del defunto), il che rende estremamente plausibile l’osservazione cardinale espressa, sia pure in momenti e circostanze diverse, congiuntamente da Boris de Rachewiltz, da Spiridion Mayassis e da Fernand Schwarz, a proposito dell'iniziazione egizia, su questa, per noi, insolita parificazione tra due condizioni apparentemente opposte. É proprio da quest’ultimo ricercatore che ci facciamo prestare il concetto, comune, come detto, a questa terna di egittologi, sintetizzato in queste parole: “Les livres des morts égyptiens n'étaient pas seulement des textes funéraires, c'étaient aussi des textes initiatiques pour les vivants. Cette lecture renouvelée de la sagesse égyptienne devrait féconder et inspirer le présent et le futur de nos sociétés occidentales” (i libri egizi dei morti non erano solo testi funerari, erano anche testi di iniziazione per i vivi. Questa rinnovata lettura della saggezza egiziana dovrebbe fecondare e ispirare il presente e il futuro delle nostre società occidentali).
Fig. 2 - Tomba e sarcofago di Tutmosi III nella Valle dei Re (KV 34).
Come per altri faraoni della XVIII dinasta gli ambienti sepolcrali di questo regnante recano le immagini del Libro dell'Amduat nella sua versione completa. Si tratta di un testo iniziatico/funerario "aristocratico" che diversamente dal Libro dei morti, che ha come protagonista Osiride, ha Ra come meta suprema della iniziazione. La contrapposizione Ra-Osiride è un argomento molto ben sviluppato da Boris de Rachewiltz negli scritti relativi a tale tematica, testi in cui l'autore esamina efficacemente le rispettive teologie.
Fonte immagine: https://it.wikipedia.org/wiki/KV34#/media/File:Tuth-grab1.jpg (pubblico dominio).
In conseguenza di ciò i Libri dei Morti egizi, nella varietà molteplice dei testi che li contraddistinguono, sono stati certamente “Libri dei morti”, o, meglio, “per i morti”, visto che hanno determinato la stessa architettura funeraria restata a testimoniarlo, ma, insieme, essi sono inequivocabilmente Libri d’iniziazione per i vivi, come meglio si vedrà appena successivamente. Essi conducevano, come il protocristianesimo nazaretano e come afferma padre Testa, "...dalla terra o dalla tomba alla presenza di Dio attraverso le tre regioni cosmiche: la tomba, l’aria dei sette cieli, che si trovano nel Chenoma e nel Pleroma". (2004, 117). Per questo L.M.A. Viola sì è potuto spingere a scrivere, a proposito del rito battesimale che si compiva a Nazaret, che: “Il battesimo pneumatico esige lo spogliamento delle vesti ilica e psichica, per immergersi nel Pleroma, nella luce Pura del Padre, come “nuda” essenza noetica...Nel compiuto battesimo spirituale il seme spirituale, si svela Uno, identico nella sovraessenza al Padre, perciò con tale atto rimette la sua veste, la Luce Pura del Padre, si fa Luce Pura, la Luce propria al Principio di tutto lo Spirito Eterno” (2008, 162).
Non sfugga un elemento essenziale che nella circostanza si vuole sottolineare con decisione, ovvero: nella loro applicazione funebre anche gli apparati d’ausilio apparecchiati dal giudeo-cristianesimo presupponevano indispensabilmente la presenza nel soggetto di un principio cosciente in grado di continuare a interagire congiuntamente con il mondo fenomenico e con quello intermedio e, soprattutto, con gli accompagnatori rituali del decesso umani e/o angelici, ancorché l'anima si fosse distaccata dal sensorio (il che costituisce il primo passaggio dell'iniziazione e viene perciò detta "prima morte").
Sarebbe davvero interessante, e potrebbe essere un ulteriore passo per ampliare il tema, spingersi in processi comparativi ancor più ampi, e, per così dire, sinottici, ove ciò sia possibile, in cui il viaggio mistico o “l’avventura iniziatica”, che dir si voglia, possa essere confrontata con testimonianze presenti in altre latitudini spirituali, ma non è questa la circostanza. Ci limitiamo perciò a proseguire con alcune considerazioni di massima.
Proprio a proposito dell'impianto cabalistico, prima accennato, particolarmente intrigante appare, anche in relazione alla prossimità geografica e di mentalità con i luoghi del primo cristianesimo, una osservazione di Sebastiano Fusco che getta un ponte tra l'esoterismo ebraico e l'iniziazione egizia. Difatti il Libro degli Inferi, anzi esattamente il Libro delle cose che sono nel Du’at, sembra offrire particolari similitudini con un testo cabalistico tra i più inaccessibili alla comprensione, soprattutto a causa dei riferimenti nettamente più operativi che filosofici in esso contenuti, ovvero il Sepher Yezirah. Del Libro egizio degli inferi (Amduat) così descrive i contenuti il sopracitato ricercatore: ”Piuttosto racconta ciò che può aspettarsi di vedere quel mago (o mistico o teurgo) che si sia sottoposto a discipline mentali idonee per trasferire la propria coscienza su piani diversi della realtà. Insomma, è quasi un seguito del Sepher Yezirah: quest’ultimo spiega un metodo per compiere un’impresa in cui il libro delle cose che sono nella Du’at mostra i risultati. Ho sempre molta diffidenza nei confronti fra idiomi diversi, ma non posso non sottolineare la somiglianza del termine egizio Du’at con l’ebraico Da’at, che significa “Conoscenza” (2019: 223).
Come si vede l'esperienza mistica del cabalista può considerarsi una sorta di “equivalente” dell'esperienza agonica presente in altri contesti spirituali ed è quindi per questo che da Parmenide alla tradizione islamica, ma praticamente pressoché dappertutto, si ripete costantemente il refrain che invita a “morire prima di morire”, perché l’esperienza mistica del vivente si ottiene mercé la separazione della componente animica da quella somatica. In entrambi i casi - e quindi in vita e in morte -, può affermarsi che: “La catabasi dell’anima e la sua congiunzione con il corpo rientrano nell’ordine provvidenziale, ma l’anima non deve subire l’ascendente del corpo e risultare così impedita nel suo atto dalla sua natura titanica. Perciò il soggetto che ha patito l’incarnazione ha il dovere di liberarsi completamente dall’impedimento del corpo, separandosi da esso, fino a portarlo sotto il suo dominio completo” (L.M.A. Viola: 2019, 9).
Ciò appare possibile solo immaginando di contenere il corpo all’”interno” dell’anima.
L’anima, difatti, non dovrebbe essere legata a un determinato corpo, per essa questo è solo un vestito provvisorio, da esso può distaccarsi e addirittura assumerne un altro, anche in vita, avendo la possibilità di “andare di tunica in tunica”. Questo avviene costantemente nella trasmigrazione della stessa anima, come propone la dottrina tradizionale della metempsicosi, quando ella assume un nuovo corpo. Il corpo è fisiognomicamente la forma dell’anima, come c’insegna il filone pitagorico della sapienza greca, in opposizione a quello aristotelico dell’Aquinate, ciò si traduce nel fatto che dal “corpo”, inteso nella sua complessità espressiva, si può scorgere lo stato e lo stadio dell’anima.
Nell’insegnamento iniziatico possono evidenziarsi paesaggi diversi ma domina comunque una sola regola fissa, ovvero: arrivare coscienti all’exitus naturale o volontario che esso sia, stato in cui è indispensabile mantenere la coscienza "vigile".
I mezzi a disposizione per la riuscita di questa operazione sono squisitamente “tecnici”, per conseguenza è necessario essere in possesso - quale corollario delle istruzioni preliminarmente ricevute – di un cospicuo armamentario teorico-pratico. Quest’ultimo nel giudeo cristianesimo, è formato da “numeri”, “lettere”, “sigilli”, “nomi sacri”, manifesti o segreti, da usarsi come potenti passaporti e come annichilitori di quei custodi delle soglie o dogane ("Telonia", nella concezione del cristianesimo orientale) che mirano a impedire l’accesso progressivo alle sfere celesti destinazione imprescindibile dell’anima in viaggio.
Sebbene il volontarismo "teurgico" non escluda l’intervento soprannaturale, “grazioso”, è il possesso della "gnosi" che adiuva l'adepto al compimento del suo periplo iniziatico. Difatti il Viola così caratterizza rigorosamente i tre passaggi del percorso che prima è cosmico e poi oltre il cosmo stesso: “La fede conferisce la salvezza che al meglio conduce all’Ogdoade, la quale è al di sopra del settimo cielo, ma al di sotto del Pleroma”. (L.M.A. Viola: 2008, 94). Il pleroma è quindi la destinazione ultima dello gnostico nella sua psicanodia.
Fig. 3. Scala Coeli di San Giovanni Climaco.
“San Giovanni Climaco il cui soprannome è venuto dall'opera che l'ha reso celebre è uno dei capolavori dell'ascetica monastica: "La scala del Paradiso" propone i trenta gradini che portano dalla terra fino al cielo, arrampicandosi sulla scala posta e sorretta da Cristo stesso, che per primo l'ha percorsa. Le icone che "fotografano" la scala giovannea mostrano la lotta spirituale: i monaci ascendono pericolosamente, senza reti di protezione, esortati dai santi, aiutati dagli angeli, ma insidiati dai demoni, che cercano di farli cadere per attirarli nel profondo dell'inferno. La visione "agonistica" della vita spirituale che qui si propone è qualcosa da recuperare nel nostro tempo. Sul valore del testo di San Giovanni "della scala" i cristiani d'Oriente e Occidente sono sempre stati d'accordo, diffondendo enormemente questo libro, attraverso traduzioni in tutte le lingue antiche della cristianità”.
L'immagine di San Giovanni Climaco ben si presta a confermare quanto è espresso in questo testo a proposito del tema delle dogane e degli ostacolatori animici che compaiono nell'iniziazione
Fonte testo: http://segnideitempi.blogspot.com/2011/03/il-santo-della-scala-giovanni-climaco.htmlhttps://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/36/StJohnClimacus.jpg
Fonte immagine: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/36/StJohnClimacus.jpg
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La parificazione del viaggio post - mortale con quello del "mistico" (si impiega la terminologia di padre Testa che conferisce identico significato al termine mistico e iniziato), conseguente all’iniziazione tra i vivi, rappresenta una grande rivelazione nell’ottica dell’insegnamento cattolico attuale, e, di fatto, con questo sicuramente contrasta, creando una indubbia frattura teologica tra i due ordini di vedute che, almeno ai nostri occhi, appaiono odiernamente incompatibili.
In primo luogo vi contrasta perché non vi è una accentuazione particolare dell’elemento indispensabile per il superamento della prova e quindi della salvezza dell’anima, ovvero la grazia. Difatti nell’orizzonte dei primordi il “successo” appare quasi tutto concentrato sull’attrezzatura che il “mistico” porta con sé e consistente in quanto ha “accumulato” in vita attraverso un processo iniziatico di “esperienziale conoscenza”. Questo patrimonio permette di condurre la sua anima fino al punto di indiarsi, sebbene non (sempre) proceda da solo in questa impresa ma abbia l’ausilio d’un potente angelo con il quale il soggetto coglie la seconda persona del suo essere e con il quale si trova in rapporto di dualitudine. Questi è la sua controparte nell’immaginale, leggendo i fatti secondo una certa declinazione corbiniana, che si rivela progressivamente espressione della sua stessa persona, fino a che l’Angelo di luce diviene un tutt’uno con il purificato asceta, tanto, che per significare questa condizione di esperita sizigialità, il predetto Corbin ha proposto una facile formula algebrica di esplicazione, perfettamente idonea a distinguere la dualità (1+1) dalla dualitudine (1x1).
In secondo luogo, occorre insistere sul fatto che il risultato della compiuta realizzazione si attua “al presente” sia che il soggetto sia "vivente", sia che si trovi in uno stato di coscienza limbica, dove le sue capacità dovrebbero essere attenuate o addirittura estinte, quando invece si reputa che esse siano comunque ben presenti e agenti,
Per quanto riguarda le testimonianze d’iniziazione “funebre”, così come descritto nel mondo egizio, esse, nel giudeo cristianesimo, si rinvengono in elementi specifici presenti negli scritti (es. il Papiro di Bruce di impostazione giudeo cristiana eterodossa nel quale si descrive il triplice battesimo), nelle sepolture e nelle steli commemorative. Proprio queste ultime condividono, a vari livelli di complessità, gli stessi elementi distintivi presenti dei luoghi dell’iniziazione dei vivi e, per conseguenza, tutta una serie di simboli, compresa la diffusissima scala celeste, tuttavia diversamente compendiati data la natura e stato del soggetto cui erano destinati.
Ulteriori comparazioni sul viaggio iniziatico postmortale
“L’anima al momento della morte, prova la medesima impressione provata da coloro che sono iniziati ai Grandi Misteri. La parola e la cosa si somigliano: si dice ‘teleutàn’ (morire) e teléisthai (essere iniziato). Prima vi sono delle cose a caso, penosi ritorni, inquietanti cammini interminati attraverso le tenebre. Poi, prima del termine, il fragore è al colmo, il brivido, il tremito, il sudore freddo, lo spavento. Ma poi una meravigliosa luce si offre agli occhi, si passa in puri luoghi e in praterie, dove risuonano voci e danze. Parole sacre e divine apparizioni ispirano un religioso rispetto. Allora l’uomo, perfetto ed iniziato, divenuto libero e passeggiando senza costrizione, celebra i Misteri con una corona sul capo, vive con gli uomini puri e santi, vede sulla terra la folla di quelli che non sono iniziati e purificati schiacciarsi e pressarsi nella palude e nelle tenebre e, per timore della morte, attardarsi nei mali, per l’errore di credere nella felicità di laggiù”. (Plutarco, fr. 178, Sandbach, Stobeo,4, 52, 49; G. Colli:1987, 113)
“Se dunque l’uomo vuole raggiungere la deificazione, è necessario che il suo spirito si accordi con la componente divina che risiede in lui alla quale egli infine riconduce l’anima inferiore dopo averla preliminarmente spiritualizzata, Ora, noi possiamo far risonare lo spirito in accordo con la componente divina al momento in cui esso, obbedendole aderisce a Lei” (Francesco Giorgi in La trasmutazione dell’uomo in Cristo, di Manuel Insolera)
Ora, finalmente provvisti di adeguate nozioni sull’argomento, si può pensare di affinare l’indagine per spingersi, con tutta la dovuta prudenza, a un confronto più diretto con ulteriori sistemi di pensiero che condividono la medesima tematica inerente il viaggio post-mortale dell’anima e, quindi, ragionare intorno alla natura degli interventi che sono propriamente da compiersi, ove possibile, in queste estreme circostanze per condurre l'anima alla sua destinazione "naturale", in definitiva al "non dove" dov'è la sua "patria".
Per conseguenza si possono proporre acconci paralleli con la letteratura tanatologica del mondo asiatico e, segnatamente, con il patrimonio “dottrinario” del buddismo tibetano, che ha elevato, a livello di scienza, la modalità di accompagnamento dello specifico elemento “spirituale” del soggetto che è destinato a subire terribili prove nel post-mortem, così come è accaduto delineando i tratti essenziali dell'oltremondo egizio.
Naturalmente lo scenario dottrinale che sta dietro l’iniziato cristiano, che si apparecchia per l’ultimo viaggio, è ben diverso da quello orientale, soprattutto in questa sua “eterodossa” declinazione palestinese e, pur tuttavia, molti accostamenti di massima possono prodursi nonostante le profonde differenze – se non si vuole addirittura parlare di inconciliabilità - delle due tradizioni.
A queste comparazioni, apparentemente “impossibili”, ha proceduto il citato Marco Toti, cogliendo nella sua disamina cospicui e molteplici paralleli tra il viaggio dell’anima cristiano – così come si prospetta nell’epistola paolina indirizzata agli Efesini, che contiene la fondamentale affermazione secondo la quale “i demoni vivono nell’aria”, spunto descrittivo commentato e sviscerato da Teofane il Recluso, nonché dal vescovo Brjančaninov -, brano, theologoumeno vero e proprio, che potrebbe essere letto in parallelo alle istruzioni contenute nel libro tibetano dei morti.
Si deve al tibetologo Detlef L. Lauff l’individuazione di alcune possibili comparazioni del Libro tibetano dei morti con i testi funerari del patrimonio egizio, cui si è fatto antecedentemente un rapido cenno, dove la presenza di elementi animico-spirituali è assai ben rimarcata e distinta in vari gradi (Ka, Ba e Akh ad esempio), diversamente dal testo tibetano, il cui sfondo teoretico è ben diverso; ciò, tuttavia, non ha ostacolato la possibilità di una certa comparazione tra i due orizzonti spirituali, nonostante le intrinseche differenze e contemporaneamente procedere all'ulteriore comparazione con il giudeo cristianesimo.
Difatti anche la tradizione cristiana è portatrice di valenze operative che possono legarsi a quelle estremo-orientali, potendosi stabilire così quasi una “triangolazione” dottrinale (una sorta di proprietà transitiva) tra tempi e luoghi tra loro anche piuttosto distanti. Nella sua disamina comparativa il citato Marco Toti ha modo di notare che, nonostante le diversità costituzionali di dottrine, sia possibile trovare un sottofondo comune che scaturisce dalla medesima concezione, secondo la quale il viaggio nell’invisibile si adatta sia al vivente, che al morente/defunto che ha già ricevuto istruzioni in vita (in realtà Giuseppe Tucci limita ai morenti e ai "morti" il campo di utilizzo del testo buddista, diversamente da quanto propone Detlef L. Lauff ).
Nel lungo deliquio coscienziale postmortale del morente di fede buddista appariranno infatti, in successione, una sequela di divinità “pacifiche”, cui seguirà una successiva serie di divinità adirate dallo spaventoso aspetto, che trovano accentuate similitudini con le divinità teriomorfe egizie le quali rivestirebbero soprattutto carattere iniziatico e per questo vanno “conosciute” (Il refrain è costante: il “partente” di fronte a ognuna di essa deve affermare, annichilendone la distruttività, “Io ti conosco!”). Non per nulla il titolo del testo di riferimento sul tema, ovvero Bardo thodol chenmo, tradotto nella nostra lingua significa Suprema Liberazione con l'Ascolto nello stato intermedio, a riprova che il suo impiego è proprio dello stato in cui la coscienza di veglia sembra aver abbandonato il corpo, mentre è attiva una forma coscienziale sottile, propria dello stato mediano che però non è più appoggiata all'elemento somatico. Questo testo d'altronde è parte di un più vasto scritto il cui titolo tradotto è: "La profonda dottrina di autoliberazione della Mente [mediante l'incontro] con le Divinità pacifiche e adirate", il che, com'è di tutta evidenza, richiama quegli incontri determinanti con "Maestri dello stato intermedio", qualunque sia l'aspetto con cui questi si presentano che sono caratteristica pressoché costante delle diverse dottrine religiose attinenti il post mortem e che sono presenti anche nel "limitrofo" mondo induista.
Rimane l’elemento "fontale", su cui vale la pena insistere. Per inverare tale autoliberazione è davvero cogente "prendere coscienza" del fatto che tutte le divinità del Bardo ma, soprattutto, le apparizioni demoniache, sono figure "necessarie", dato il loro carattere iniziatico e lo sono parimenti a quelle dei “Libri dei morti egizi” che adempiono alla medesima funzione di illuminanti psicopompi. Esse, qualora sia fallito l'obiettivo primario d'identificazione con la Chiara luce al momento del trapasso, possono consentire, in progressione discendente, di conseguire diversi risultati comunque favorevoli, quali ad esempio la sosta paradisiaca, o ulteriori “contrazioni ontologiche” comunque ancora positive, a seconda dell'abilità con si affronti l'agonica tenzone postmortale.
Fig.4 - Struttura mandalica del mondo coscienziale così come descritto dal Bardo Thodol.
Fonte: https://en.wikipedia.org/wiki/Bardo_Thodol#/media/File:Zhi-Khro_Bardo_Thodol.jp
(pubblico dominio)
Un prezioso libro tardomedioevale, proposto con il titolo un poco “ruffiano” di Libro Cristiano dei Morti (Ars Moriendi in originale), del cui commento è autore il fondatore dell'Archeosophia, Tommaso Palamidessi, mostra l’insorgenza di queste figure, a volte amabili ed amichevoli, altre volte terrificanti, ma comunque "utili", negli stati di deliquio propri alla sfera della cristianità. Accanto a demoni orribili appaiono quelle entità soccorrevoli che sono proprie al “pantheon“ cristiano (figure divine e sante) Spesso però queste apparizioni rivestono un carattere ingannevole, nonostante l’apparente bonarietà con cui si presentano, in quanto mascherano l’intento subdolo di evitare il pentimento dell’agonizzante che si ritiene graziosamente giù salvato per effetto della sola loro presenza. Per questo il morente è invitato a mostrarsi cauto verso alcune manifestazioni benevole, ricordando come al Maligno sia consentito di vestirsi dell’abito di luce per ingannare gli sprovveduti e per questo s’invita l’anima a prestare la massima cautela a certe manifestazioni eccessivamente favorevoli e deresponabilizzanti.
A proposito dei tremendi pericoli che si corrono di questo viaggio interiore, solo apparentemente “esterno”, non ci si può esimere dal rilevare come, nel sistema della mistica ebraica - così c’informa il grande esegeta della Kabalah Ghershom Scholem -, se qualcuno degli aspiranti alla visione del “Re nella sua bellezza” non si rivelava degno di riceverla, per un difetto di “conoscenza” o, meglio, di “discernimento”, non essendo capace di distinguere la realtà dall’illusione, ebbene questi sconterebbe assai pesantemente la sua ignoranza. Egli difatti verrebbe spietatamente tratto in inganno dagli “angeli delle porte”, inducendolo, queste figure solo apparentemente amicali, a dar credito a percezioni errate e fascinose che, incautamente e per suggestione, il viaggiatore mistico avrebbe abbracciato, non rendendosi conto della loro illusorietà.
Questi angeli ostacolatori, infatti, dopo averlo subdolamente invitato ad entrare nel luogo meraviglioso, lo getterebbero, senza tanti complimenti, nel torrente di lava infuocata, con le evidenti conseguenze del caso. Immagini che, benché letterarie, davvero rimandano, nella loro struttura essenziale, alle terribili e terrorizzanti punizioni descritti nei “libri dei morti” d’ogni latitudine, in cui il non superare una prova comporta conseguenze assai gravi, anzi terribili.
Si tratta di un evidente parallelo con il prima citato Libro cristiano dei morti.
La Prima Apocalisse di Giacomo (scritto gnostico), proprio come il Bardo Thodol, espone, attraverso una serie di espressioni attribuite a Gesù, che paiono accostabili a quelli del Bardo, un insegnamento segreto che consente all’iniziato di affrontare le prove postmortem, senza deviazioni o arresti alle sfere arcontiche, in cui, appunto, in un passaggio, si fa menzione delle terribili ghigliottine costituite dalle "dogane" (telonia) presidiate dagli esosi gabellieri che impediscono ogni gratuito passaggio.
Questo dimostra come, ovviamente, anche l’iniziato “cristiano” è necessitato a recare con se i nomi delle entità annientatici che dovrà incontrare, perché “conoscere” il nome significa conoscere per identità la cosa conosciuta. Per questo viene chiesto al viator di passare “dall’apparenza all’apparizione”, ovvero dalla illusione percettiva alla Realtà percepita al di sopra dell'espressione fenomenica della stessa, pena di essere gettato da terribili angeli ostacolatori in un lago di fuoco.
Fig. 5 - I gironi infernali nell'illustrazione di Sandro Botticelli dell'Inferno di Dante.
Dante per "indiarsi" nel mezzo del cammin di nostra vita dovrà prima scendere all'Inferno e "conoscere" tutti i peccati per poi poter risalire di stato in stato, di grado in grado. Si potrebbe dire che l'ascesa dantesca è espressione della dottrina degli stati molteplici dell'essere nel cristianesimo
Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Cerchi_dell'Inferno#/media/File:Sandro_Botticelli_-_La_Carte (pubblico dominio).
Anche qui in definitiva si tratta di “conoscere”. Citiamo solo un breve passaggio d’assaggio che introduce alle impegnative prove che toccano all’anima nel suo viaggio
Soprattutto tre di loro ti cattureranno, costoro siedono come gabellieri
e non soltanto esigono il tributo, ma rapiscono con violenza
anche le anime (segue il testo)
(L.M.A. Viola: 2008, 67)
Per questo il Viola ha potuto proporre una comparazione di estrema importanza affermando: “Questa pratica degli gnostici cristiani è analoga alla pratica tibetana, inerente i processi di separazione pre-mortem e post-mortem dell’anima (ndr: ?) e del seme pneumatico connesso. Se Il Bardo Thodol è il testo tibetano che tratta della pratica della conduzione degli stati di separazione nei regni di mezzo, con la possibilità di arrestare i determinismi karmici, nel caso occidentale il corrispettivo risiede nei condizionamenti della potestà di heirmarmene, che esige una revulsione per condurre infine alla nemesi, fino all’eventuale attingimento alla chiara luce, per NOI LA LUCE DEL PLEROMA, realizzando il corrispettivo della Videha Mukti, ovvero la LIBERAZIONE differita, base della grande liberazione, per gli gnostici cristiani, la liberazione nel Padre”.(L.M.A. Viola: 2008. 67).
Allo stesso modo, a margine di ciò, è da rilevare che Videha Mukti si riferisce alla liberazione postmortale propria del Vedanta e del Giainismo. Difatti anche nell’induismo si conoscono due vie parallele: quella iniziatica per i vivi, Jivanmukta, e quella per i morti, Videhamukta. Atteso ciò cerchiamo di chiarire una discrepanza fondamentale presentatasi in relazione al tema “dell’anima”, perché, “accostare” tra loro dottrine e sistemi diversi non significa e non può significare equivalenza ed è pertanto lecito supporre che il citato Viola per “anima” intenda, in riferimento al buddismo tibetano, cosa diversa da quella che intendevano, ad esempio, gli ellenici. Questo è quanto puntualizza Tucci in ordine al tema: ”Non certo l’anima perché per i tibetani, come per tutti quanti i buddisti, l’anima non esiste, al posto della quale così pongono la coscienza, o pensiero, meglio la sintesi del nostro essere psico fisico” (G. Tucci: 1972, 19).
Ecco, questo è il tema nuovo: “il nostro essere psicofisico” che fa da comun denominatore alle diverse tradizioni.
Tutti gli itinerari interiori sono possibili perché essi trovano riscontro nella costituzione iperfisica dell’essere umano che reca "fisicamente" impresse in sé le vie della “salvezza”.
Per questo Tucci scrive: “In virtù di quella rivelazione, l’uomo non è più la debole e cieca creatura avviluppata nella rete della maya, ma si trova a ripercorrere a ritroso in sé medesimo il dramma dell’evoluzione cosmica; questo appunto è il senso della gnosi, siccome quella che, dischiudendo i misteri di tale processo, ci permette di viverlo e riandarne il cammino tornando alla luce primigenia, che già a noi si appalesò e nella quale allora non ci perdemmo perché restammo sorpresi e ignari della sua natura, Ho detto la gnosi, ma si dovrebbe dire le gnosi, perché sono cinque, come quelle prime cinque irradiazioni dell’Essere che apparve nell’aspetto delle cinque coppie primigenie" (G.Tucci: 1972, 34).
In onore di una fatica editoriale di assai commendevole spessore, il cui commento proviene da uno studioso del calibro Pio Filippani Ronconi, vorremmo prendere a prestito, per un ulteriore ragionato confronto sui temi finora affrontati, l’Ummu’l Kitab, un enigmatico testo “proto sh’ita-ismailita”, figlio di molti contributi dottrinali, congiuntamente diacronici e sincronici, e comunque affatto privo di una sorprendente coerenza dottrinale e operativa. che il predetto studioso ha tradotto e commentato con la consueta accurata perizia.
Lo scomparso orientalista così illustra la poliforme natura e struttura del testo:” In altri termini il problema dell’Ummu’l Kitab non si esaurisce nell’individuare e intendere con tutte le loro ramificazioni i suoi diversi theoleogoumena, bensì implica la comprensione delle dimensioni psicologiche per le quali detti filosofemi, o come si vogliono denominare, diventano esperienza vivente per gli adepti della sètta e, come tali, costituiscono una substantia intellegibilis e non un mero articolo di fede. Questo problema, squisitamente gnostico, consiste nell’abbracciare, con lo studio, sia le teorie esposte nel testo, sia la condizione del miste che le sperimentava come sua azione interiore” e ancora: “il testo medesimo ad ogni passo indica con precisione, che diremmo anatomica se non fosse psicologica, i loca imaginalia, ove nell’intimo dell’entità umana, si verificano gli eventi, i drammi e le metamorfosi altrove raffigurati come cosmici, cioè trascendenti il limite del soggetto umano” (Ummu’l Kitab: VIII, IX).
Ecco, l’accento posto dal ricercatore sui loca imaginalia offre di nuovo piena contezza di quella ricerca dell'interiore Regno di Dio indicata in un logion del Vangelo di Tommaso come via di liberazione e perciò chiude ogni elucubrazione sul tema delle varie psicanodie presenti nelle viarie forme di "misticismo". È palese che si tratti di viaggi "interiori".
Come detto la “grande Chiesa” sembra affidare il passaggio nell'Altrove esclusivamente alla "grazia" perché la concezione del corpo tratteggiata ad esempio nel De miseria humanae conditionis (Sulla miseria della condizione umana), conosciuto anche come Liber de contemptu mundi (Libro sul disprezzo del mondo), è totalmente carente di cenni in ordine alle possibilità d’esistenza di una “metacorporeità umana” e delle possibilità salvifiche che da essa possono scaturire in ordine ai temi proposti, costituendosi così una vistosa amputazione antropologica, purtroppo caratteristica della religione predominante in Occidente, almeno nella recente e presente temporalità. L’uomo, secondo le linee di pensiero tratteggiate da quegli scritti, sarebbe esclusivamente un composto di natura caduca (il contrario di quanto prima commentato dal Tucci), più o meno “carne infarcita di escrementi”. L'autore, il cardinale Lotario dei Conti di Segni (poi Innocenzo III, grande persecutore degli Albigesi), scrive, difatti, a questo proposito: "l'uomo è putredine e il verme è figlio dell'uomo. Che padre indecente e che abominevole sorella! L'uomo viene concepito dal sangue putrefatto per l'ardore della libidine, e si può dire che già stanno accanto al suo cadavere i vermi funesti" (De contemptu mundi 3, IV). Per conseguenza, visti i natali che lo precedono, l'uomo non può che essere irrimediabilmente schiavo della bruta passione carnale da cui consegue la cieca procreazione generante discendenti suoi simili destinati a vivere sottomessi alle loro pulsioni; nel testo non v'è traccia della possibilità d'una vita superiore perché, evidentemente, questa eventualità non è nell'orizzonte del suo autore.
Innocenzo III promosse quindi una visione drammaticamente negativa dell’essere umano che è preda degli appetiti incontrollati della sua natura inferiore e della corruzione che lo divora, pressoché senza alcuna possibilità di scampo. Il suo pensiero avrà un largo e prolungato seguito, anche nei secoli successivi, influenzando certe declinazioni o "derive" mistiche.
Lo scritto è diviso in tre parti: nella prima parte vengono descritte la miseria del corpo umano e le varie difficoltà che si devono affrontare per tutta la vita; il secondo elenca le inutili ambizioni dell'uomo, cioè ricchezza, piacere e stima; il terzo affronta il decadimento del cadavere umano, l'angoscia dei dannati all'inferno e il giorno del giudizio. Questa visione, approssimativamente parlando, è esattamente il contrario di quella propria alla gnosi che si propone di convertire il veleno, ovvero trasformare la prigionia corporale “dell’anima”, in farmaco utilizzando il corpo esattamente come un utensile che consente la “fuga” dalla prigione, il ritorno alla dimora del Padre dopo un lungo esilio. Esso quindi è uno strumento di liberazione, piuttosto che esclusivamente una fonte d’oppressione, dal momento che il principio cosciente è in grado di indirizzare i processi “tanatologici”, siano essi in atto, vivente il corpo, durante l’iniziazione, oppure latenti, nella loro modalità sottile, nel postmortem reale. Per questo, a nostro sommesso avviso, si dovrebbe ragionare con maggiore approfondimento sui “toccamenti” iniziatici del Cristo, del cui carattere operativo si ha un esempio eloquente nell’episodio del lavaggio dei piedi agli Apostoli nel Giovedì santo, ricordando, altresì come il Panunzio abbia profuso nei suoi testi abbondanti prove della conoscenza della metacorporeità nelle pratiche cristiane d’ordine monastico (si ritorna, quindi, a quella accantonata teologia monastica - forse sarebbe opportuno dire teosofia monastica visto il carattere operativo che qui si privilegia - di cui ha fatto competente cenno Nuccio d’Anna in una sua recente pubblicazione). Il passaggio che adesso si riproduce svela il grado di allontanamento subentrato nel tempo da queste conoscenza in relazione a tecniche, anche terapeutiche, che erano ben note e applicate :“...Oggi, un Benedettino dell’Abbazia di Maria Laach – il Padre Mattias Corvin von Krasimski - è stato autorizzato dal suo Ordine a istruirsi da Maestri del Tibet per ristudiare i principi della costituzione occulta dell’Uomo e ritrovare la Medicina Sacra che ne deriva” (S. Panunzio: 2014, 321, nota 9).
Se si confronta la concezione estremo orientale con il sistema della kabalah, con l’Ummu’l Kitab e altro ancora (l’elencazione è impossibile) con quella di Innocenzo III (di cui per ragioni di spazio non possiamo riprodurre altri brani significativi), il raffronto diviene improponibile perché mostra nel contemporaneo cristianesimo gli effetti nefasti discendenti da questa lontana causa che hanno determinato una concezione totalmente inaridita delle autonome potenzialità umane in grado di interagire nell'ordine spirituale. Un processo catabasico che appare ormai definitivo e quindi irreversibile. Ciò ben spiega, almeno a giudizio di chi scrive, perché l’uomo nella sua miseria corporale non può fare nulla senza ricorrere a un impetrato intervento divino che lo soccorra, essendo il soggetto quasi completamente in balia del proprio apparato psicofisico che, prima lo getta nell’esistenza, come una barca senza timone nell’oceano e poi lo sottrae da questa in un moto di disperato disfacimento, eventi contro cui non si può lottare senza le armi spirituali forgiate dall’ascesi sviluppata però sui già richiamati elementi propri alla metacorporeità.
Contro questa disperazione insita nell’ordine stesso delle cose, Giuseppe Tucci, invece, appunta questa riflessione: “La nostra persona dunque, a chi ben guardi, non è di fatto un caduco organismo fisico, un agglomerato di sostanze che il tempo fatalmente consuma e corrode, ma è un mistico diagramma nel quale è locata la suprema pentade, cioè i fasci elementari delle forze attraverso le quali l’uno si moltiplica nel tutto...in tal maniera conoscendo molte creature saranno liberate” (G. Tucci: 1972, 37).
Ci si è imbattuti già nel corso di questo breve intervento nei termini “diagramma” e “mandala” e tali lemmi evidenziano la disposizione di particolari strutture interiori attinenti il "corpo sottile", loci, appunto, in cui si allocano specifiche entità disponendosi queste secondo un preciso schema geometrico, come accade nella delineazione esposta nella figura n° 4. A questa distribuzione sephirotica si potrebbe accostare, oltreché la kabalah una configurazione propria del sufismo, colto in una sua particolare declinazione operativa, in cui si fa riferimento ai "profeti del tuo essere", disposti anch'essi nel "corpo" e quindi esperibili come stati dell'essere nella coscienza del praticante quali elementi di uno psicososmogramma d'impronta mandalica. Tuttavia ci arrestiamo qui perché proseguire su questo discorso porterebbe troppo lontano.
In questo pernicioso “accantonamento” della concezione iperfisica, almeno a nostro parere, sta la causa della scomparsa ufficiale delle vie iniziatiche nel cristianesimo, siano esse concepite per i vivi come per i defunti.
NB Le evidenziazioni presenti nel testo (grassetti, sottolineature, etc.) ove non altrimenti indicato sono dell'autore dell'articolo.
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