Un capitolo delle relazioni tra Cristianesimo e “orientamento tradizionale”.
John Lindsay Opie e Cristina Campo*
Noi siamo come naufraghi aggrappati a tavole sul mare e sballottati in maniera interamente passiva da tutti i movimenti delle onde. Dall’alto del cielo, Dio lancia a ognuno una corda. Colui che afferra
la corda e non la lascia più nonostante il dolore e la paura, resta come gli altri soggetto agli urti e alle ondate: però quegli urti si combinano con la tensione della corda per formare un insieme meccanico diverso.
- Weil, La Grecia e le intuizioni precristiane, tr. it. Milano 1973, 278.
Maria Luisa quante volte
raccoglieremo questa nostra vita
nella pietà di un verso, come i Santi
nel loro palmo le città turrite?
La primavera quante volte
turbinerà i miei grani di tristezza
dentro le piogge, fino alle tue orme
sconsolate – a Saint Cloud, sulla Giudecca?
Non basterà tutto un Natale
a scambiarci le favole più miti:
le tuniche d’ortica, i sette mari,
la danza sulle spade.
“Mirabilmente il tempo si dispiega…”
ricondurrà nel tempo questo minimo
corso, una donna, un àtomo di fuoco:
noi che viviamo senza fine.
Cristina Campo, “Biglietto di Natale a M.L.S.”
In questo contributo cercheremo di individuare, attraverso l’analisi di alcuni aspetti teoreticamente “forti” (la nozione di tradizione e il suo nesso con l’esoterismo, il mundus imaginalis e l’iconografia, l’ermeneutica), alcuni dei nodi problematici che sottostanno alla relazione tra “orientamento tradizionale” e Cristianesimo (cattolicesimo “integrale” e ortodossia). Lo spunto è fornito da un lavoro pubblicato nel 2011, nel quale i “protagonisti” – modelli di un itinerario personale quasi “paradigmatico” - sono J. Lindsay Opie (1928-) e C. Campo (1923-1977); la prospettiva da noi adottata è storico-intellettuale e teoretica (fil rouge “sotterraneo” della trattazione sono le questioni inerenti agli effetti delle riforme del Concilio Vaticano II in ambito cattolico, con particolare riferimento alla questione della liturgia).
***********************
Il lavoro di A. Giovanardi “John Lindsay Opie. Estetica simbolica ed esperienza del sacro. Un profilo intellettuale” (Roma 2011, pubblicato per i prestigiosi tipi delle “Edizioni di Storia e Letteratura”), prefato da B. Uspenskij, costituisce senza dubbio un prezioso contributo di “storia intellettuale”, dedicato ad una figura di studioso contemporaneo discreta, ma allo stesso tempo particolarmente significativa: J. Lindsay Opie (1928-). Si tratta di una ricostruzione precisa – si veda la minuziosa bibliografia di e su Lindsay Opie[1] –, che tuttavia travalica i confini della scientificità, termine che spesso cela malamente una non commendevole aridità di fondo. Giovanardi considera giustamente Lindsay Opie un maestro, non solo – non tanto – in senso “accademico” (cap. 1): siamo infatti in un territorio in cui sarebbe del tutto artificioso distinguere itinerario intellettuale e vita spirituale.
Per comodità, rileviamo qui due aspetti pregnanti dell’attività dello studioso oggetto del lavoro: in primis, la sua fine attività di bizantinista, iconologo e “storico dell’arte” (il termine, come giustamente nota Giovanardi, non rende ragione della profondità e dell’ampiezza della prospettiva teoretica che ha sempre caratterizzato gli studi di Lindsay Opie: cfr. cap. 8), mentre l’amico E. Zolla (1926-2002) si orientò, nella prima parte della sua carriera, verso gli studi americanistici[2]; in secondo luogo, ma anche in senso più ampio, il significativo ruolo che Lindsay Opie ha svolto nell’ambito della cultura italiana, in specie tra gli anni ’60 e ’70. In Italia fin dal 1949[3], egli si converte all’ortodossia (Chiesa Ortodossa Russa in Esilio) nel 1969 e, pochi anni prima, tramite Zolla stesso, incontrato all’Università di Catania, conosce e diviene confidente della poetessa e traduttrice C. Campo (1923-1977), proprio mentre questa organizza la “resistenza cattolica” contro il Vaticano II e, in particolare, contro la imposizione del culto riformato dopo il Concilio Vaticano II[4].
In un periodo tanto travagliato, tutto ciò avrebbe potuto dar facilmente luogo ad evasioni intellettuali di taglio estetizzante ovvero, sul piano pratico, a sincretismi o ad orientalisti esotizzanti ed idealizzanti non meno problematici. Non è stato così: qui, l’estetica ha un fondamento “metafisico”. Lo dimostrano, tra l’altro, l’attività assolutamente non conforme e le sincere, sofferte e ponderate conversioni dei due al Cristianesimo “tradizionale” (quella della Campo si può datare al 1964-1965:[5] nello stesso periodo, Cristina iniziò a criticare S. Weil), significativamente unite, negli ultimi dieci anni circa della vita della Campo, dall’assistenza ad un rito identico[6] (russo-cattolico, al “Russicum”, per la Campo, durante le agonie della resistenza alla riforma liturgica latina, russo-ortodosso per Lindsay Opie): in connessione con quanto si dirà a breve sul mundus imaginalis, qui la Messa – sia nella sua forma bizantina che in quella romana – costituisce esplicitamente una eminente “esperienza della soglia”. Eppure, è bene rammentarlo, Cristina morì cattolica: se, da un lato, la sua conversione al cattolicesimo fu certamente orientata anche da fattori estetici legati al rito della Messa, è necessario ribadire, a scanso di equivoci, che anche il suo “culto” della bellezza come armonia delle forme (in religione come in letteratura) aveva radici ben salde nel dominio metafisico; d’altro canto, non vi sono motivi per connettere la sua “svolta bizantina”, avvenuta verso il 1975 ma in certo senso risalente al 1967[7], ad un avvicinamento all’ortodossia[8].
È stato asserito che Cristina morì, letteralmente, di agonia per la Messa antica. Nelle parole del padre domenicano M. Guérard des Lauriers, futuro estensore alla fine degli anni ’70 della famosa “Tesi di Cassiciacum”[9] – che distingue tra “materia” e “forma” del papato, ossia tra elezione alla sede romana e volontà di operare il “bene della Chiesa” -, il “Breve Esame Critico del Novus Ordo Missae”, firmato dai cardinali A. Bacci e A. Ottaviani (non da Monsignor Lefebvre) su sollecitazione della stessa Campo, e presentato a Paolo VI il 21 ottobre 1969 da Ottaviani (con una lettera di accompagnamento), costituì un “intervento il cui onore deve essere attribuito a colei che ne concepì il progetto, ne portò il peso e ne morì d’agonia”.[10] Il testo in oggetto fu messo a punto dalla Campo, cardiopatica dalla nascita, a partire da note scritte in francese e da lei vergato direttamente in italiano (sotto dettatura di Guérard des Lauriers) tra l’aprile ed il maggio del 1969 (soprattutto di notte); quindi, esso fu lungamente e scrupolosamente vagliato da Ottaviani, e da questi firmato il 13 settembre (alla firma di Ottaviani seguirà quella del card. Bacci, il 28 dello stesso mese). Lo storico documento fu poi tradotto in francese dalla Campo e da Guérard des Lauriers, su domanda di Mons. Lefebvre; ovviamente, parallelamente a ciò, senza quartiere fu anche la lotta della Campo contro la “nuova messa”, che ella ebbe a definire perentoriamente come “l’orrore”.[11] Ad ogni modo, poco dopo l’invio del “Breve Esame Critico” al papa, in “Una immensa vittoria”[12] la Campo scrisse significativamente: “Per la prima volta – se non erriamo – nella storia della Chiesa, la Santa Sede ha corretto, a meno di un anno dalla sua apparizione, un documento pontificio ufficiale. Si tratta del sinistro paragrafo 7 della Institutio generalis che apre il nuovo messale di Paolo VI, pubblicato nell'aprile 1969. Questo paragrafo, nella edizione del marzo 1970, è radicalmente trasformato. Poiché esso contiene la definizione stessa della messa, non sarà difficile misurare l'importanza della trasformazione. Vittoria grandissima dei Cardinali Ottaviani e Bacci e della Fondazione ‘Lumen Gentium’, le cui critiche al nuovo messale si sono mostrate così pienamente giustificate, contro il parere di tutti quei cattolici per i quali l'obbedienza è divenuta una droga e che sostenevano l'illegittimità delle osservazioni dei Cardinali”. Subito dopo, la Campo procede a comparare “le due definizioni”; in effetti, si può facilmente rilevare che nella versione del 1970 fu aggiunto sia che il sacerdote “rappresenta il Cristo”, “realmente presente nell’assemblea riunita in suo nome, nella persona del ministro, nella sua parola sostanzialmente e in maniera ininterrotta sotto le specie eucaristiche”, sia il carattere sacrificale della Messa, “nella quale si perpetua il sacrificio della Croce” (l’A. sottolineava significativamente entrambe le aggiunte, neppure implicite nella prima versione): ciò che induce la Campo a qualificare la “differenza dei due testi” come “una differenza di religione”. Anche se sulla definizione originale, nonostante il suo “emendamento” (!), rimase costruito il messale paolino, “la vittoria dei Cardinali sul paragrafo 7” dimostrava la liceità e l’utilità della critica “là dove fede e tradizione siano in gioco”, oltre che, quindi, della “richiesta di correzione dei testi che diano adito a tali critiche”.
Quanto sopra riferito valga da premessa ad un rilevante capitolo di storia intellettuale (cap. 3); ad ogni modo, una tale congiuntura sottende questioni teoretiche di ancor più significativa portata, che in seguito tenteremo compendiosamente di tematizzare.
In primo luogo, direttamente connessa con l’attività di iconologo di Lindsay Opie è la questione del mundus imaginalis; il suo porsi “sulla soglia dei mondi”, oltre che inserirlo anche “esistenzialmente” all’interno di una ricerca sapienziale “di confine”, tendenzialmente “universale”, ne ha pure reso possibile l’interesse profondo per l’alterità religiosa[13]. Il mundus imaginalis è stato definito da P. Sherrard “[…] un nesso, un luogo intermedio tra l’Universo archetipo in quanto pensato dalla divinità e il mondo della manifestazione creata”[14]; centrale, a questo proposito, è la capitale distinzione tra immaginazione (“alta fantasia”, diceva Dante[15]) e fantasia, che trova la sua applicazione più concreta nell’iconografia cristiano-orientale[16]. L’”immaginazione attiva” è funzionale alla formazione di una “immagine” calata dall’alto[17]. Tutto ciò implica una sottile, fitta rete di relazioni tra realtà “materiale”, simboli ed archetipi. In un certo senso, come la stessa Campo precisa, l’immaginazione “è” attenzione[18], quindi preghiera. Così, il “ricordo di Dio” (mneme toû Theoû) è già orazione “mentale”. Da un altro punto di vista, memoria e immaginazione sono strettamente connesse, afferendo entrambe alla facoltà “intellettuale”[19] (la quale esercita propriamente l’attenzione; inoltre, il noûs [“intelletto”], disceso nel cuore, può conseguire la “quiete” [greco hesychía]). Il tema della relazione tra “archetipo” e “simbolo” è molto ben sviluppato da Lindsay Opie: “Per il cristiano gli archetipi sono, in ultima istanza, i contenenti della Rivelazione. Né gli archetipi, né le verità ad essi superiori, possono essere espressi in concetti: entrambi sono appresi direttamente per mezzo di simboli […]”[20]. A motivo di ciò, “l’icona […] significa una partecipazione reale al mondo degli archetipi divini”, ciò che le conferisce un’efficacia “quasi sacramentale”[21]. Platonicamente, attraverso un’operazione di “reminiscenza”, “l’artista archetipico non inventa né costruisce, ma rivela una forma preesistente”[22], e la sua autentica ascesi si oppone per diametrum al “modernismo ascetico” dell’homo faber, di conio rinascimentale, con tutte le sue inquietanti propaggini postmoderne. L’iconografo ricrea, dunque, attraverso un esercizio di “chiarificazione progressiva” – che è un sacrificio – analogo alla “spartizione originaria della luce dalle tenebre”; non a caso, “l’oggetto viene progressivamente modellato con la luce stessa”[23]. Non si tratta quindi di imitare la realtà – all’insegna di un “realismo” speso didatticamente utile, ma di cui non si possono tacere le talvolta esiziali derive naturalistiche –, ma di esercitare, dal punto di vista artistico, quell’attività “subcreativa” che J.R.R. Tolkien intendeva come “mitopoiesi”[24], ultimamente consistente nell’attingere, tramite l’immaginazione, ad archetipi dati dall’alto e “calati” nel mondo per mezzo di simboli. In questo senso, si può dire che l’immaginazione stessa (e la memoria), con le sue potenzialità “subcreative”, rimanda all’immagine che l’uomo conserva di Dio (Gn 1,26-27); inoltre, la mitopoiesi si lega in maniera molto stretta allo “stupore infantile” (cfr. la nozione di “somiglianza”), sorta di poetica “santa ignoranza” che predispone ad una spontanea, autentica “creatività”, e che si oppone alla “conoscenza” profana ed alla curiosità volgare (spesso radice della moderna idolatria della “cultura”): il ritorno ad una condizione consapevolmente “puerile”, necessario secondo Cristo stesso per l’ingresso nel Regno dei Cieli (Mt 18,3), contrasta peraltro con la mortifera conoscenza del bene e del male cui i progenitori attinsero dall’albero (Gn 2,16; 3,1-6). Non a caso, questa attività “immaginativa” è così motivata, nelle sue intime ragioni, dal sommo autore inglese: “La Fantasia rimane un diritto umano: creiamo alla nostra misura e nel nostro modo derivativo perché siamo stati creati; e non soltanto creati, ma fatti a immagine e somiglianza di un Creatore”[25]. A mezzo dell’immaginazione e della memoria (l’iconografo, pregando, si “ricorda” di Dio), si “trasfigura” la realtà, penetrandola nei suoi più riposti recessi: secondo Lindsay Opie ciò costituisce “la trasformazione, al tempo stesso alchemica e ascetica, del mondo naturale in quello celeste […]”[26].
In secondo luogo, gli studi di Lindsay Opie “intersecano” il tema dell’“orientamento tradizionale” come ricerca di “un canone ermeneutico universale” che, applicabile nei riguardi dell’interpretazione dell’”opera d’arte sacra”[27], è suscettibile di essere trasferito sul piano dell’intendimento delle religioni non cristiane: operazione semantica, questa, diremmo pressoché inevitabile in contesto contemporaneo. Sebbene debitore di molti argomenti dei “tradizionalisti” – l’antimodernismo e l’antistoricismo, l’attenzione alla comparazione tra universi religiosi talora molto distanti, al rito ed alla dottrina, il tema dell’”occultamento” della tradizione nella storia, etc. –, Lindsay Opie si distingue da certi loro “schematismi”[28] (anche “schuoniani”, maggiormente à la page negli USA), pur affermando “analogie” tanto fondate quanto ardite: “Più alta della conoscenza metafisica è la conoscenza spirituale, collegata all’idea di un Dio personale, come è nel Cristianesimo. Conclusioni simili si possono dedurre anche dallo Śivaismo”[29]. L’”esoterismo”, fuori da ogni deriva occultista o concordanza “universalistica”, risulta contenuto nel cuore della rivelazione cristiana, che in certo senso lo eccede: “É la sequenza pasquale che comprende l’‘esoterico’ e non il contrario”[30]. Quindi, il “rovesciamento” della sapienza mondana operato da Cristo – lo stesso triduo pasquale, che ne mostra la piena umanità e la piena divinità – è ultimamente irriducibile ad ogni comparazione “omologante”; in particolare, è la verità centrale del Cristianesimo, ossia l’Incarnazione della seconda Persona della Trinità, con la “scienza della carità” che ne consegue, magnificamente espressa nelle “Beatitudini” (Mt 5,3-12), ad essere tale. Ciò non significa, tuttavia, che si debba necessariamente assumere, da un punto di vista teoretico (operativamente il problema non si pone), una postura rigidamente esclusivista, che può a volte assumere tratti settari o farisaici. In merito alla “dialettica” cristiana tra il “gridare i misteri dai tetti” ed il “non gettare le perle ai porci”[31] – che conferma il carattere “abissale” della rivelazione cristiana ed anche la sua irriducibilità ad ogni definitiva “sistematizzazione”[32] –, Lindsay Opie afferma significativamente che, prima dell’istituzione del “catecumenato” (III secolo), volta ad equilibrare una tale apparente antinomia, “il Cristianesimo [primitivo] comportava un’autentica iniziazione a misteri celesti ed eccelsi. Il futuro credente […] veniva introdotto, già durante la prima generazione cristiana, in un sistema grafico di valore quasi sacramentale, composto di lettere e numeri particolari, di sigilli della Croce e del Nome, di segni nascosti, il cui significato gli veniva esposto secondo le sue capacità e il grado del suo progresso nella sapienza della fede. Pregava secondo formule e riti celati al profano, la cui formulazione risaliva agli Apostoli, e ad alcuni venivano comunicate arcane dottrine ed interpretazioni del testo sacro che si dicevano tramandate oralmente dal Cristo stesso”[33]. Se il profano è semplicemente il “non iniziato”, si può considerare la posizione di Lindsay Opie come “simpatetica” e tuttavia sottilmente difforme da quella di R. Guénon, i cui meriti sono inversamente proporzionali agli errori professati: a parte la superiorità della “conoscenza spirituale” (cristiana) sulla “conoscenza metafisica” (altre tradizioni “regolari”[34]), si evince in Lindsay Opie l’idea dell’esistenza, nel Cristianesimo delle origini, di una ritualità sì “riservata”, ma non rubricabile in senso extraecclesiastico né per principio accessibile solo ad una élite di “iniziati”.
In terzo luogo, quanto appena detto pone la questione centrale della “disciplina arcani” (cap. 7), ossia la tradizione orale variamente attestata presso i Padri. Essa, a ben vedere, costituisce un significativo tramite tra lo studio dell’iconografia cristiano-orientale e la “consistenza” del Cristianesimo quale mistero ri-velato ed in certo senso “ineffabile” (da cui il suo rapporto “analogico” con le religioni “tradizionali”). Pertanto l’”esoterismo”, secondo Lindsay Opie, non è una dottrina rigidamente distinta dall’exoterismo, ma la “dimensione interiore e ineffabile dell’esperienza cristiana”[35], spirituale prima che teoretica, ben compendiata nell’iconografia (e nella patristica, quindi nel monachesimo[36]) e definita (ma non per questo esaurita, in quanto sostanzialmente ineffabile) dai confini posti dalla dottrina e dal rito[37]. In Oriente, la distinzione di S. Basilio tra dogma e kérigma[38], che ritroviamo echeggiata in A. Scrima[39], è un’autorevole conferma di quanto detto: non si tratterebbe tanto, quindi, di una ritualità “supplementare” o “extrasacramentale”[40] – d’altra parte, i sacramenti sono stati istituiti o voluti da Cristo in persona! –, ma di una “penetrazione” più approfondita della rivelazione tutta (“apórrhetos didaskalía”[41]), di origine divino-apostolica, trasmessa oralmente ed adattata alle qualificazioni dei destinatari. La fissazione per scritto, la stessa “stratificazione” e la esplicita formalizzazione della dottrina un tempo “riservata”, pur necessarie, ne avrebbero allora “cristallizzato” ovvero “occultato” (non negato!) i significati profondi – pur sempre attingibili, quindi: non ci si stupirebbe nel trovare “tracce” delle formule di cui parla Lindsay Opie nella Messa[42]; d’altra parte, la “sistematizzazione” della tradizione va di pari passo con la sua “definizione” scritta, e non è certo un caso che la modernità, tendenzialmente avversa all’oralità, sia caratterizzata da un orientamento “libresco” (oltre che “immaginifico” in senso spesso deteriore[43]). Eppure, in questo caso si tratta forse, per i contemporanei, di un’opportunità, addirittura di una felix culpa che disvela la possibilità dell’ermeneutica.
Tutto ciò ci induce a considerare – in piena consonanza con Giovanardi, riteniamo – quello che riteniamo il lascito più significativo dell’opera di Lindsay Opie. Riprendendo quanto egli stesso afferma (v. in particolare il cap. 4) a margine della sua splendida “lettera aperta” The Enemy Within a A. Solženicyn, tradotta e prefata dalla stessa Campo, ed edita in varie lingue, “il vero nemico è quello interno, non tanto l’illuminismo o il comunismo”[44]. La lettera in oggetto, tradotta pressoché contemporaneamente agli ultimi tentativi “tridentini” della Campo[45], costituisce “l’ultima collaborazione tra Cristina e John”, ed è scritta “in replica a quella inviata dallo scrittore russo al III Concilio della Chiesa Russa in Esilio”; si tratta di “un clamoroso esempio della loro coincidente visione del mondo”, oltre che del “capolavoro letterario di Lindsay Opie”[46]. Emerge, in questo pregevole lavoro, l’accento posto sulla nozione di “tradizione” (eminentemente espressa nel culto, che compendia con parole e gesti simbolici i dogmi), connesso ad una serrata critica della modernità come “nemico interno”[47], penetrato di fatto nel corpo della Chiesa; peraltro, certi paradossali compiacimenti ed altri reiterati compromessi di buona parte delle gerarchie cattoliche[48] mostrano con tutta evidenza come non ci si sia avveduti del fatto che – per riprendere alcune significative espressioni dello Lindsay Opie – il “drago dalle nari di fuoco nell’Est” non è peggiore del “serpente lusinghevole nell’Ovest”[49].
A Giovanardi, infine, va riconosciuto il non trascurabile merito di aver reso omaggio, con dovizia di particolari ed esemplare capacità di sintesi, a questa nobile figura di intellettuale e testimone che, insieme alla Campo, si è distinto come riservato ma fermo araldo della inderogabile necessità di una autentica paideía cristiana[50]. Per dirla con la poetessa bolognese, “Non si può nascere ma/si può morire/innocenti”[51]: per “tornare” in quel grembo trasfigurato ed eccelso che è il “Regno dei Cieli” – sembrano suggerirci i due “imperdonabili” sodali, questi “irregolari” discreti e teneramente inflessibili[52], con parole inevitabilmente sussurrate eppure chiaramente udibili a chi abbia orecchie per intendere –, la tradizione è la via maestra, l’unico, infallibile antidoto contro i rischi di sottesi alla società “liquida” ed “informe”. Se la religione di Occidente si è eclissata, a maggior ragione la “santa fuga del prigioniero” (compendiata sul piano religioso dalla tradizione, in questo caso), per usare un’espressione cara a Tolkien, non costituisce solo una evasione, ma è forse l’unico mezzo di “sopravvivenza” spirituale (e talora anche materiale![53]): è, in radice, un ritorno ed un approfondimento (un’ermeneutica “ecclesiale”[54]) che consola e ristora.
* Tengo a ringraziare Hans Thomas Hakl per la generosa ospitalità e per avermi dato la possibilità di compulsare la sua mastodontica biblioteca, il prof. John Lindsay Opie e il dott. Riccardo Turrini Vita per i suggerimenti e le precisazioni.
[1] A. Giovanardi, op. cit., 63-76.
[2] Alcune riflessioni dei due ricordano quanto variamente affermato da M. Eliade – autore ben conosciuto da entrambi – in merito al “camuffamento del sacro” (v. ad es. M. Eliade, L’épreuve du labyrinthe. Entretiens avec Claude-Henri Rocquet [1978], tr. it. Milano 1980, 127 e 135 ss.) operato, talora inconsapevolmente, nella letteratura occidentale contemporanea (cfr. infra, 7 e n. 27; si pensi ai nessi tra letteratura e cinematografia noir e tragedia greca); si ricordi che anche la Campo era cultrice, e superba traduttrice, di alcuni autori statunitensi (Giovanardi, op. cit., 5 n. 13). Letteratura, iconografia, simbolismo religioso (anche non cristiano) e pratica spirituale – “sublimata” nel rito della Messa, che costituì in un certo senso il “sigillo” della loro amicizia (cfr. infra, 3 e n. 5) – uniscono Lindsay Opie e la Campo, mentre Zolla, a parte le sue tarde meditazioni sulla “realtà virtuale” (La realtà virtuale 1992-1993, ne Lo stupore infantile, Milano 1994, 265-282), sembrerebbe esser stato meno interessato all’aspetto devozionale, tanto che uno dei motivi del “raffreddamento” del suo rapporto con la Campo – di cui egli aveva corroborato l’interesse per i mistici – fu proprio, nella seconda metà degli anni ’60, il profondo ed attivo coinvolgimento di quest’ultima nelle questioni inerenti allo smantellamento del patrimonio liturgico cattolico (si veda il capolavoro letterario e “religioso”, che costituisce anche una miniera di informazioni biografiche di prima mano sulla Campo, C. Campo, Lettere a Mita, a cura di M. Pieracci Harwell, Milano 1999, 227 [la lettera è del 21/05/1969], ove in maniera molto significativa la Campo si riferisce implicitamente alla sua attività contro la riforma liturgica con il termine “guerra”; cfr. C. de Stefano, Belinda e il mostro. Vita segreta di Cristina Campo, Milano 2002, 128 e 132): mentre Zolla si allontanava dalla Campo, conosciuta nel 1958, l’amicizia tra questa e Lindsay Opie iniziava, consolidandosi intorno ai temi appena menzionati; in particolare con Zolla, Lindsay Opie condivise anche l’interesse per P. Florenskij. I medesimi prelati, a loro volta, contribuirono all’allontanamento di Cristina da Zolla, certamente già ben avviato nel maggio del 1969 (Ricossa, op. cit., pp. 23-24): ciò conferma da un lato la battaglia che fu connessa alla difesa della Messa cattolica costituì una sorta di “approfondimento” della conversione della Campo, dall’altro che la difesa dell’intera tradizione cattolica fu la ragione che segnò un punto di non ritorno nell’ambito delle relazioni sentimentali con Zolla e “intellettuali” con la Weil. Peraltro, la risposta alla “Lettera a un religioso” della Weil (scritta nella seconda metà del 1935 e pubblicata a Parigi nel 1951, comprende 35 obiezioni alla dottrina cattolica), scritta su suggerimento della stessa Campo da Guérard des Lauriers, costituì un ulteriore passo della Campo verso l’”ortodossia” cattolica: la Weil, infatti, apprezzava la liturgia, la mistica cattolica ed il Nuovo Testamento, ma non l’orientamento dottrinale di segno “tridentino” (tomista) della Chiesa, ed aveva a suo tempo formulato dubbi inerenti ad alcuni dogmi cattolici. Quanto detto mette comunque in luce le frequenti, profonde e reciproche influenze ed interferenze – non solo intellettuali, ma anche “esistenziali” – tra i tre studiosi qui considerati.
[3] Con una borsa “Fulbright”: ci teniamo a precisarlo, visto che è Lindsay Opie stesso che dobbiamo ringraziare se anche noi ne abbiamo fruito, nel 2008.
[4] Due fondamentali momenti di questa battaglia, di cui la Campo fu protagonista “dietro le quinte”, diremmo “notturna”, oltre che vittima, sono la fondazione di “Una Voce-Italia”, associazione per la salvaguardia della liturgia latino-gregoriana costituita giuridicamente il 7 luglio 1966 (il 5 febbraio dello stesso anno una lettera-manifesto firmata da 37 intellettuali ed artisti di rilievo, tra cui la stessa Campo e Zolla, era stata resa pubblica ed indirizzata a Paolo VI, col fine di consentire la celebrazione della liturgia gregoriana almeno nei conventi), e la stesura, con la guida del P. M. Guérard des Lauriers tra l’aprile ed il maggio del 1969 e con l’aiuto di alcuni liturgisti, del “Breve Esame Critico del Novus Ordo Missae” (Vaduz 1970, tr. it. www.unavox.it/PDF/Opuscoli/Breve_Esame_Critico.pdf), firmato dai cardinali A. Ottaviani ed A. Bacci e presentato dal primo a Paolo VI il 25 settembre 1969, nel quale si afferma: “Le parole della consacrazione, quali sono inserite nel contesto del Novus ordo, possono essere valide in virtù dell’intenzione del ministro. Possono non esserlo perché non lo sono più ex vi verborum o, più precisamente, in virtù del modus significandi che avevano finora nella Messa. I sacerdoti che, in un prossimo avvenire, non avranno ricevuto la formazione tradizionale e che si affideranno al Novus ordo al fine di ‘fare ciò che vuole la Chiesa’, consacreranno validamente? È lecito dubitarne” (p. 15, n. 15). In una prospettiva più ampia, vi è da considerare che, se la stessa ortodossia non è stata del tutto intoccata dai mutamenti liturgici (si pensi alla resistenza dei “Vecchi Credenti” e lo scisma che ne risultò, nella Chiesa russa, a partire dal 1666), la riforma liturgica latina – certamente ben più profonda, e tutta orientata in senso “antropocentrico” (sull’antropocentrismo in Occidente si può vedere infra) – costituisce la logica conseguenza di un trend già emerso pubblicamente alla fine degli anni ’40: trend che, caratterizzato da radici storiche molto risalenti – ha avuto due significativi momenti nella riforma della Settimana Santa da parte di Pio XII (1955) ed in quella della Messa “tridentina” secondo le rubriche di S. Pio X, voluta, nel 1962, da Giovanni XXIII (si pensi alla inserzione del nome di S. Giuseppe nel venerabile ed antichissimo Canone romano). Già con Pio XII si formalizza l’inversione intellettualistica del principio “lex orandi, lex credendi” (G. Hull, The Proto-History of the Roman Liturgical Reform, civitas-dei.eu/hull.htm, p. 9). L’esito di un tale processo, dopo la Costituzione “Sacrosanctum Concilium” (1963), è stato il “novus ordo Missae” di Paolo VI, con le due contrastanti edizioni della “Institutio Generalis Missalis Romani” (la seconda [marzo 1970], di meno di un anno successiva alla prima, fu rivista da Paolo VI sulla base delle proteste di gruppi tradizionalisti: v. http://www.unavoce-ve.it/05-02-28.htm; qui si può constatare il ruolo talora determinante delle cdd. “minoranze creative”). Lindsay Opie, riprendendo la critica di Florenskij ai riti protestanti, accostò la nuova Messa ad “un bicchiere di coca-cola” (The Enemy Within. Open Letter to A.I. Solzhenitsyn, Eastern Churches Review VII/2 (1975), tr. it. Il nemico interno, in A. Giovanardi-G. Scarca [a cura di], Poesia e preghiera nel Novecento. Clemente Rebora, Cristina Campo, David Maria Turoldo, Villa Verucchio (Rn) 2003, 102 [Giovanardi, op. cit., 25]). Qui si tocca uno dei nodi centrali del cattolicesimo, forse teoreticamente inestricabile anche da parte dei più affidabili autori “tradizionalisti”, consistente essenzialmente nel processo che porta l’autorità (il magistero pontificio, parallelamente al suo “rafforzamento”), nell’ambito di un itinerario storicamente ben risalente (cfr. D. Tessore, Gregorio VII, Roma 2003, 149-166), a “scavalcare” la tradizione (oltre che la stessa perpetua validità [“perpetuo valitura”] della costituzione apostolica “Quo primum tempore” di S. Pio V [1570]): nodo di cui il Vaticano II – e le riforme che ne conseguirono, logicamente, comprese quelle dei sacramenti – è solo una manifestazione, seppure ben problematica ed eclatante, nel quadro di un lungo percorso storico che si caratterizza, dopo il primo millennio, per un complesso gioco di azioni e reazioni. In senso lato, quanto appena detto ripropone la vexata quaestio del rapporto tra Chiesa e mondo (post)moderno (cfr., ad es., le eventuali connessioni storico-teoretiche tra Concilio Vaticano II e ‘68), ovviamente troppo ampia per essere anche solo accennata in questa sede; dal punto di vista simbolico-liturgico, come ha giustamente asserito A. Roccucci nella sua relazione di presentazione del lavoro di Giovanardi, rimuovere il confine (in questo caso, l’iconostasi) annulla la comunicazione tra divino e umano. Ad ogni modo, la “liberalizzazione” della Messa antica, operata dal “Motu Proprio” Summorum Pontificum del luglio 2007, ha facilitato l’apertura “ufficiale” di un approfondito dibattito ad intra sul Vaticano II, di cui i libri di Mons. B. Gherardini (ad es. Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Frigento [Av] 2009, cui è però seguito Concilio Ecumenico Vaticano II. Il discorso mancato, Torino 2011) e di R. de Mattei (Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Torino 2010) sono tra i testimoni più accreditati.
[5] Su ciò si può vedere, in modo approfondito, C. de Stefano, op. cit., 123-127, oltre che M. Pieracci Harwell, Cristina Campo e i due mondi, in Campo, op. cit., 398 (la morte dei due genitori nel giro di sei mesi sarebbe stata la “molla” della conversione, che comunque, visto il suo precedente cattolicesimo “tiepido”, era “in potenza” fin dalla metà degli anni ’50: cfr. G. Scarca, Nell’oro e nell’azzurro. Poesia della liturgia in Cristina Campo, Milano 2010, p. 13). Si può anche notare che la Campo, come e più di R.P. Coomaraswamy (figlio del sommo A.K. Coomaraswamy, altro “maestro” di riferimento di Lindsay Opie; il primo si convertì al cattolicesimo verso la metà degli anni ’50), fu una delle “convertite” che fu quasi subito indotta ad affrontare da posizioni tradizionali, seppure in modo discreto, le questioni dottrinali e liturgiche poste in essere da alcuni documenti ed esiti del Vaticano II.
[6] O comunque, fino alla “svolta bizantina” della Campo, affine: il rito cattolico “tridentino” è certamente più vicino a quello ortodosso che alla “nuova Messa” cattolica, se non altro per l’accento che esso pone sulla sostanza “sacrificale” della celebrazione (che tutte le liturgie cristiane di Oriente e Occidente ritengono, tranne il novus ordo cattolico e, ovviamente, le cene protestanti): di qui la “contraddizione” teoretica in cui cadono i laudatori cattolici del rito bizantino officianti il (o amanti del) novus ordo. Non è neppure da sottovalutare la questione della “forma” liturgica, che avvicina rito e poesia (al tema è dedicato il lavoro di Scarca, op. cit.).
[7] Cfr. de Stefano, op. cit., 154 (sulle origini “letterarie” dell’amore della Campo per i riti orientali, che si fanno risalire al 1950, si vedano le puntualizzazioni della Harwell, cit., 397) . Tuttavia, già in una lettera alla stessa Harwell del 27/11/1967, la Campo afferma: “Il Russicum è ancora lo smeraldo delle mie settimane” (Campo, op. cit., 217; cfr. anche ibidem, 219 e 227). Ciò non significa, ovviamente, che la Campo abbandonò S. Anselmo (op. cit., 367 [n. 186]).
[8] Giovanardi, Cristina Campo, il cattolicesimo e il rito bizantino, Studia Universitatis Babeş-Bolyai, Teologia Cattolica LIII 4 (2008), 90 (cfr. le pertinenti osservazioni dell’A. sulla presunta “deriva russa” della Campo). Conferma tutto ciò il fatto che, quando l’amico M. Davitti, da suddiacono cattolico di rito bizantino-slavo, si fece ortodosso, fu fermamente ripreso dalla Campo (Davitti curò l’introvabile Commento alla Divina Liturgia di Nicola Cabasilas per “Messaggero”) (Padova 1987; ringrazio A. Giovanardi per avermi fornito questa significativa informazione). Si veda anche, sul tema, http://www.cristinacampo.it/public/vigilia%20romana,%20anno%20vi,%20n.%206,%20giugno%201974%29.pdf (articolo attribuito alla Campo). Tuttavia, il profondo interesse ed anche una certa “convergenza” col Cristianesimo orientale non riducibile a mera curiosità intellettuale sono confermati, in epoca relativamente tarda, dall’introduzione della Campo ai Racconti di un pellegrino russo, pubblicati per Rusconi nel 1973, oltre che, secondariamente, dalla cura, con P. Draghi, e dall’introduzione della Campo ai Detti e fatti dei Padri del deserto, lavoro uscito sempre per Rusconi l’anno successivo e dedicato al P. I. Hausherr (si riconosce facilmente la mano della Campo nei titoli dati ai “Detti”).
[9] Dopo una prima versione breve, la tesi fu pubblicata sui “Cahiers de Cassiciacum” 1-6 (1979-1981).
[10] Citato in F. Ricossa, Cristina Campo, o l’ambiguità della Tradizione, Verrua Savoia (To) 20062, p. 6.
[11] Gli imperdonabili, Milano 20046, p. 225.
[12] “Una Voce Notiziario” 2, 1970, pp. 3-4 (i corsivi riportati sono nel testo originale).
[13] Traggo questa considerazione dalla già menzionata relazione di Roccucci.
[14] Human Image, World Image. The Death and Resurrection of Sacred Cosmology, Ipswich 1992, 141 (nostra traduzione). Abbiamo sviluppato il tema nel nostro La preghiera e l’immagine. L’esicasmo tardobizantino (XIII-XIV secolo): temi antropologici, storico-comparativi e simbolici, Milano 2012, 91-102.
[15] J. Lindsay Opie, Profane Art in Byzantium?, in A. Iacobini-E. Zanini (a cura di), Arte profana e arte sacra a Bisanzio, Roma 1995, 222 (Giovanardi, op. cit., 44).
[16] Ma anche sul piano più strettamente ascetico (cfr. G.E.H. Palmer-P. Sherrard-K. Ware [eds], The Philokalia. The Complete Text Compiled by St Nikodimos of the Holy Mountain and St Makarios of Corinth, Engl. trans. London 1995, Glossary, IV vol., 430-431), come è rilevabile in Gregorio Sinaita, che parla di “immagini divine” (greco noémata) ricevute da Dio nell’intelletto purificato (ibidem, 216-217); è evidente che tali noémata non sono logismoí (“pensieri”), accostabili alle phantasíai (“rappresentazioni”).
[17] Cfr. supra, n. 12 (Gregorio Sinaita) ed infra, n. 26 (Lindsay Opie). Sul tema, H. Corbin, L’imagination créatrice dans le soufisme d’Ibn Arabi (1958), tr. it. Roma-Bari 2005, è ovviamente cruciale.
[18] Campo, Gli imperdonabili, Milano 20046, 165-170.
[19] Non è un caso che generalmente, nell’uomo, non si dà ricordo senza immagine; ed anzi, a ben guardare, i ricordi possono essere definiti come immagini mentali fissate e “sfumate”.
[20] Flannery O’Connor, in E. Zolla (a cura di), Novecento americano, tr. it. Roma 1981-1982, III vol., 235 (Giovanardi, op. cit., 33).
[21] Lindsay Opie, L’icona e l’eremita, in Centro di Ricerche Storiche della Pro Loco di Laterza (a cura di), L’eremitismo in Puglia, Bari 1974, 36 (Giovanardi, op. cit., 39).
[22] Lindsay Opie, Flannery O’Connor, cit., 235 (Giovanardi, op. cit., 40).
[23] Lindsay Opie, Icona, Arte e Documento 12 (1998), 29-30 (Giovanardi, op. cit., 45).
[24] Dell’A. inglese si può vedere, ad esempio, Sulle fiabe, in J.R.R. Tolkien, Tree and Leaf (1964), tr. it. Milano 2000, 13-106 (in particolare pp. 65-76 [“Fantasia”], ove la “fantasia” è definita “un’attività razionale” [p. 67 n. 29] e, implicitamente, “una sorta di facoltà magica” [p. 68]): tra “magia” e “immaginazione” vi è in effetti un rapporto anche etimologico. Sulla “malinconia” del cattolico Tolkien, fondata sull’”ambivalenza” di questo mondo, per il quale l’uomo non è stato fatto, si può vedere A. Monda-S. Simonelli, Tolkien. Il signore della fantasia, Milano 2002, cap. 8, in particolare 189-191 (la storia, la vita come “lunga sconfitta”, che si appesantisce col passare del tempo, ma con “alcuni esempi e intuizioni della vittoria finale”). A questo proposito, cfr. quanto M. Yourcenar ha scritto: “Ho fatto dire a un imperatore romano di cui rievocavo la storia che giunge un momento in cui ‘la vita per ogni uomo è una disfatta accettata’. Tutti noi lo sappiamo […]” (Le Temps, ce grand sculpteur [1983], tr. it. Torino 1994, 75). In ultima analisi, la vita (anche, e forse soprattutto, quella dei “grandi”) costituisce una serie di sconfitte, e la vittoria, in questo mondo, consiste nell’accettarle, arrendendovisi.
[25] Tolkien, op. cit. tr. it. 76. In un certo senso, si potrebbe dire che, laddove l’Oriente cristiano ha sviluppato con maggiore “coerenza” e continuità l’iconografia, l’Occidente ha prodotto, sempre sul piano “immaginativo” e quasi per “compensazione”, esiti più significativi ad esempio in letteratura.
[26] Icona, cit., 29 (Giovanardi, op. cit., 46). La prassi iconografica della “chiarificazione progressiva” potrebbe anche essere accostata, su altro piano, alla nozione cattolica di “sviluppo omogeneo del dogma”, pur dovendosi notare una “asimmetria” – in ultima analisi molto risalente, cronologicamente – tra la relativa “saldezza” della dottrina cattolica tradizionale ed il depauperamento “simbolico” di certa arte occidentale postmedievale (la cui funzione Trento indica chiaramente come didattica).
[27] Ibidem, 61.
[28] Ibidem, 32-33. In particolare, a parte la loro indubbia serietà e profondità, le ipotesi “perennialiste” non risultano dimostrate dai loro pur acuti sostenitori, e trovano, ad esempio, una significativa impasse nel caso del rapporto tra “teologia della sostituzione” (dottrina cattolico-tradizionale ed ortodossa) e “continuità” del Giudaismo postcristiano; per non parlare dell’utilizzo di alcune tesi riconducibili, in ambito cattolico, a M. Eckhart, esplicitamente condannate dal Magistero: ad es., la tesi n. 27, secondo cui “c’è nell’anima qualcosa di increato e increabile […] e questo qualcosa è l’intelletto”, fu dichiarata eretica (Giovanni XXII, In agro dominico). Cfr. anche, sulla condanna delle tesi secondo cui le religioni non cattoliche sarebbero vie di salvezza, il Syllabus di Pio IX, al n. 16 (mentre l’ortodossia sembrerebbe maggiormente compatibile col perennialismo , in quanto meno “definita” e quindi più “aperta” a tesi “universaliste”). A questo proposito, si debbono notare le significative “convergenze parallele” della Campo (che, tuttavia, non fu certamente una perennialista “sistematica”) con il rabbino A.J. Heschel, amico di Zolla e coltissimo studioso di filosofia ebraica medievale, kabbalah e chassidismo; oltre a un lavoro di C. Trungpa (v. infra), di Heschel, la Campo presentò per Rusconi, nel 1970 – dunque proprio in un momento topico della battaglia per la Messa romana (cfr. supra, 2 n. 4)! –, L’uomo non è solo. Una filosofia della religione (ed. or. 1951, in inglese); a questo proposito, si può vedere la lettera alla Harwell del 24/02/1970, riportata in Campo, Lettere a Mita, op. cit., 239, al termine del P.S. della quale è la ardita affermazione, riferita a Heschel: “un ‘vero israelita’ [..] che quando dice Torah dice, senza saperlo, Verbo… (E non so neppure fino a che punto senza saperlo)”. È chiaro che ciò non costituisce un atteggiamento usuale per un cattolico “tradizionale”: a maggior ragione se si considera che Heschel fu era già stato tra gli ispiratori di uno dei documenti più avversati in ambito cattolico-tradizionale, la Dichiarazione Nostra Aetate (1965) sui rapporti tra Chiesa e religioni non cristiane. Da tutto ciò, Don F. Ricossa deduce: “Quindi anche nel 1970 C. [Cristina Campo] non difendeva tanto la Tradizione ma le tradizioni, non l’Ortodossia ma, ma il ‘Sacro’, non tanto la Messa ma il ‘Rito’…” (Cristina Campo o l’ambiguità della tradizione, Verrua Savoia [To] 2005, 55 n. 53); ad ogni modo, nel suo lavoro Ricossa sostiene, onestamente, che la conversione della Campo fu sincera, anche se non piena. Sul perennialismo statunitense si può vedere il ponderoso lavoro di S. Houman, De la philosophia perennis au pérennialisme américain, Torino 2010, oltre che un nostro progetto inerente, tra l’altro, alle relazioni tra cattolici “tradizionalisti” e perennialisti in contesto italiano, francese e statunitense (http://www.academia.edu/2165119/A_Postmodern_Paradigm_Shift_Ecumenism_the_Second_Vatican_Council_and_the_Sense_of_Tradition._A_Never-Written_Chapter_of_Contemporary_Intellectual_History). Dal punto di vista cattolico, non crediamo che, in materia di rapporti tra le diverse religioni, si possa andare oltre le formulazioni del Principe di Canosa (S. Vitale, Il pensiero del Principe di Canosa. Le dissertazioni sulla religione, Napoli 1991, ad es. 4, 8, 9, 10 [le varie tradizioni come “prefigurazioni” o “frammenti” in certo senso deturpati” del Cristianesimo, sulla base della nozione di “Rivelazione primordiale” cattolicamente intesa]).
[29] A. Barbera, L’ultima età del mondo? Incontro con Lindsay Opie (Giovanardi, op. cit., 16 n. 40 [corsivo nostro]; cfr. ibidem, 53). Codesta affermazione di Lindsay Opie si connette ad una rivalutazione delle facoltà “intuitive” inerenti al cuore (si pensi, in ambito cattolico, a B. Pascal e, sul piano letterario, a A. de Saint-Exupéry), che respinge, in certo modo, l’”intellettualismo” ed il “razionalismo” occidentale, di cui tomismo e perennialismo potrebbero essere considerati rispettivamente viatico “ontologizzante”, aristotelicamente connotato, e riflessione “metafisicamente orientata”, di taglio platonico (la tradizione, anche se non “rivisitata”, non si può ridurre ad una dottrina, ma deve “incarnarsi” in una pratica su quella fondata). Secondo A. Faivre, nel tardo Medioevo si verificò la rottura tra “pensiero analogico” e logica aristotelica, ciò che determinò l’applicazione, in Occidente, del principio di identità e non contraddizione anche alla metafisica (Philosophie de la nature et naturalisme scientiste, Cahiers de l’Université de Sant Jean de Jérusalem I. Sciences traditionnelles et sciences profanes, Parigi 1975, 92-94): l’”esoterismo”, fondato sulla legge delle corrispondenze e su di una dimensione “immaginale” connessa ad una “ermeneutica spirituale”, fu quindi marginalizzato dai concetti della scolastica, e l’applicazione della logica aristotelica alla metafisica implicò una “ontologizzazione” di quest’ultima. Per quanto concerne la nozione di “conoscenza spirituale”, si può rimandare all’espressione dantesca “luce intellettual, piena d’amore” (Paradiso XXX,40). Inoltre, le riflessioni di Lindsay Opie sulla “gnosi cristiana” (ibidem, 55 e 55-56 n. 140 [riferimenti di Giovanardi]), insieme alle considerazioni sulla “superiorità” del Cristianesimo sulle altre religioni “tradizionali” (cfr. anche le importanti affermazioni di Lindsay Opie sulla distinzione tra Cristo e “luce intellettuale” nel suo L’icona della Trasfigurazione e il simbolismo della luce, Simposio Cristiano [1976], 99, riportate in Giovanardi, op. cit., 46), che possono essere comunque assunte quali veicoli autentici di Grazia, ricordano le posizioni dell’ultimo J. Borella (The Problematic of the Unity of Religions. Afterword to B. Bérard, Introduction à une métaphysique des mystères chrétiens, Sacred Web 17 [2006], Engl. trans. 157-182), anch’egli critico del Vaticano II. In ultima analisi, il Cristianesimo, che è un messaggio eminentemente spirituale e personale che abolisce la distinzione formale tra esoterismo ed exoterismo, “contiene” l’“esoterico”, e quindi lo “eccede”: di qui il rapporto “analogico” tra Cristianesimo ed altre tradizioni. È evidente che, anche in ragione di quanto appena detto, “analogia” non significa “identità”; al limite, si potrebbe discutere, sotto certi rispetti, di “equivalenza” (in termini “operativi”) ovvero di “complementarità” (gli aspetti dottrinali e mistici delle varie religioni illuminando i punti non sviluppati nei diversi universi sapienziali, e, in casi eccezionali, addirittura aiutando a comprendere la propria tradizione, evitando in tal modo indebite “conversioni”). Sul tema, si può vedere supra il nostro L’ermeneutica quale veicolo di un “ecumenismo al vertice” tra metodologia storico-religiosa e prassi spirituale.
[30] Lindsay Opie, Il significato iniziatico delle icone pasquali, Conoscenza religiosa 7/2 (1975), tr. it. 175 n. 13 (Giovanardi, op. cit., 51).
[31] Lindsay Opie, L’immagine sacra e l’esoterismo monastico, Nicolaus 5/2 (1977), 415 (Giovanardi, op. cit., 50).
[32] Si potrebbe anche aggiungere che il carattere “eccelso” del Cristianesimo – e quindi la sua sostanziale ineffabilità: esso “descrive”, sublimandola, la stessa vita umana – ne ha determinato spesso l’incomprensione e la banalizzazione, per il mezzo della inevitabile ambivalenza (e sottigliezza) semantica di alcuni termini-chiave propri del Cristianesimo stesso; di ciò, alcuni esiti sono facilmente riscontrabili in specie negli ultimi decenni. Le parole definiscono, ma, se assolutizzate, a volte tradiscono.
[33] Lindsay Opie, L’immagine sacra e l’esoterismo monastico, cit., 411 e Id., Le immagini sacre e il tema dell’esoterismo monastico, in F. Zeri et alii, Arte e sacralità. Salvaguardia e tutela, Roma 1994, 29-31 (Giovanardi, op. cit., 49-50).
[34] Cfr. Lindsay Opie, L’immagine sacra e l’esoterismo monastico, cit., 415-416 (Giovanardi, op. cit., 53).
[35] Cfr. quanto afferma Florenskij ne La colonna e il fondamento della verità, 179, 205 (Giovanardi, op. cit., 53 n. 134), ove l’eccelso pensatore russo parla di “esoterismo ecclesiale sui generis” (la sottolineatura di “ecclesiale” è nostra), connettendolo ad una dimensione “misterica” (non “segreta”) svelantesi in “esperienze inesprimibili, indicibili, indescrivibili, che non possono rivestirsi di parole se non nella contraddizione del sì e del no”. Qui si mostra con evidenza uno dei motivi di contrasto tra il Cristianesimo orientale e quello occidentale: l’adesione, sul piano “metafisico”, al principio di non contraddizione (cfr. supra, n. 26). Roccucci, nella sua relazione alla presentazione del libro di Giovanardi, ha affermato che il “mistero” non va tanto indagato secondo la misura di una sua presunta “esattezza”, quanto nella dimensione della “profondità”. Idee simili a quelle di Lindsay Opie sul tema ─ ma con uso del termine “mistica”, e con riferimento ad un cattolicesimo “universalistico” ─ si trovano in S. Weil (v. G. Goisis, Quali religioni nella città: osservazioni a partire da Simone Weil, in L. Guadagnin-G. Sterlocchi [a cura di], Simone Weil e l’amore per la città. Venezia terrena e celeste, Padova 2011, 194).
[36] Giovanardi, op. cit., 49. Cfr. anche ibidem, 53.
[37] Ibidem. In questo senso, si può dire che la tradizione è l’”esoterismo” (nei suoi aspetti mistico e teoretico), di norma trasmesso per via orale, ma spesso “exoterizzato” a motivo di circostanze storico-dottrinali.
[38] Lindsay Opie, L’immagine sacra e l’esoterismo monastico, cit., 415 (Giovanardi, op. cit., 50).
[39] Il padre spirituale (1996, in romeno), tr. it. (parziale) Magnano (Bi) 2000, 56 (la distinzione tra “misteri” e loro “espressione” [dogmi] è esplicitamente affermata anche da un celebre autore cattolico contemporaneo, R. Garrigou-Lagrange, nel suo magnum opus Le tre età della vita interiore, Roma 20112, IV vol., 74 n. 9; cfr. anche ibidem, 94]). Nel caso di Scrima, in contrasto con la posizione della Campo, l’influenza guénoniana (che ad ogni modo assume toni più radicali nel tardo Scrima: al proposito cfr. il nostro Religious Morphology, Hermeneutics and Initiation in Andrei Scrima’s Il padre spirituale [The Spiritual Father], Aries 11/1 [2011], pp. 77-97) si coniuga con la lode del Concilio, che sarebbe stata “una grande esperienza di comunione […] una icona […] della Chiesa in cammino” (La Chiesa ortodossa e l’attuale momento ecumenico, Russia Cristiana 66 [1965], tr. it. 8).
[40] Cfr., da questo punto di vista, le critiche della Campo a Guénon (riportate in una sua lettera a R. Quadrelli, Lettere a Rodolfo Quadrelli, in M. Farnetti et alii [a cura di], Appassionate distanze. Letture di Cristina Campo, Mantova 2006, 76: Giovanardi, op. cit., 52) e le considerazioni della poetessa in merito alla liturgia quale “iniziatrice sovrana” (Sensi soprannaturali, in Ead., Gli imperdonabili, 232 [Giovanardi, op. cit., 52 n. 132]).
[41] S. Basilio il Grande, Lo Spirito Santo XXVII,66.
[42] Cfr., in ambito cattolico, quanto Giovanardi riporta dal Liber Sacramentorum. Note storiche e liturgiche sul messale Romano, del beato Alfredo Ildefonso Schuster, in merito alla “legge dell’arcano” (op. cit., 50 n. 126).
[43] Si pensi al risibile slogan sessantotesco “l’immaginazione al potere”, segno palese di un processo storico che, ben risalente, ha condotto l’Occidente ad esiti estetici, culturali e spirituali che costituiscono autentici abissi di mediocrità ed insignificanza (cfr. la maggior parte della cd. “arte contemporanea”).
[44] Citato in D. Brullo, Un’icona, “La Voce”, 20 giugno 2012, 3.
[45] “L’ultimo servizio alla causa tridentina fu la pubblicazione – per le edizioni Rusconi – del libro di Mons. M. Lefebvre, Un Vescovo parla, proprio del 1974” (Ricossa, op. cit., 24; Cristina era amica dell’arcivescovo francese, che considerava l’intemerato custode dell’ortodossia [ibidem, 24 n. 94]). Noi stiamo affrontando, da qualche tempo, la questione dei rapporti tra la Campo ed altri intellettuali di orientamento “cattolico-tradizionale” e l’universo “cattolico-integrale”, in specie la “Fraternità San Pio X” (il nostro è un lavoro in progress, dal titolo provvisorio Le due tradizioni. Il cattolicesimo tradizionale tra Mons. M. Lefèbvre e R. Guénon). A questo proposito, interessanti sono le parole di A. Cattabiani: “Fu lei [C. Campo] a spingerlo [Mons. M. Lefèbvre] su posizioni di rottura. Direi quasi che fu Lefèbvre a essere un discepolo di Cristina” (riportato in de Stefano, op. cit., 163).
[46] Giovanardi, op. cit., 22.
[47] A tale proposito si deve rilevare, per “traslato”, come l’attuale stato in cui versa la Chiesa cattolica – che non manca di attanagliare, di fatto seppure in forme meno palesi, certi settori della stessa ortodossia (cfr. Lindsay Opie, The Enemy Within, cit. tr. it. 99 e 101-102) – dipenda dal trionfo di un “neomodernismo residuale” ed in certo senso “diluito”, più volte condannato ma oggi imperante fin sui troni più alti, che spesso si esprime, esternamente, come “inclusivismo” teologico (segno di debolezza interna, e non, come si vorrebbe, di “apertura”), ovvero, “internamente”, in proposizioni anatemizzate in specie da S. Pio X e da Pio XII; non di rado, una tale forma di “pensiero debole” si dibatte contraddittoriamente tra archeologismo e storicismo evolutivo. Tali influssi, secondo Lindsay Opie, potrebbero generare in Oriente una situazione paradossale, che porrebbe il problema concreto del riconoscimento della Chiesa stessa (cfr. The Enemy Within, cit. tr. it. 104). In merito alla tesi dell’ecumenismo cd. “esoterico”, la Campo, oltre a sottolineare implicitamente il parallelo tra Chiesa d’Oriente e d’Occidente (a quest’ultima si riferisce esplicitamente Lindsay Opie ibidem, 99 e 101-102), estendeva esplicitamente la questione dell’“ortodossia” anche al Buddhismo tibetano (Introduzione a C. Trungpa, Born in Tibet [1966], tr. it. Torino 1970, 14, ove cita M. Pallis e un inedito di Mons. des Lauriers, relativamente al quale afferma doversi distinguere “unità” da “unione”), istituendo una significativa analogia tra le persecuzioni cinesi, le riforme di Nikon ed il Vaticano II (cfr., sul tema, de Stefano, op. cit., 135-136), le cui cause sarebbero state in entrambi i casi di natura “metafisica”. Sulla questione del nesso tra “perennialismo” e modernismo, anche noi tenderemmo a distinguere l’“inclusivismo” di cui sopra da quell’”ecumenismo al vertice” professato dalla Campo (e da molti autori “tradizionalisti” in senso “guénoniano”), che è sempre, eminentemente e solo eventualmente, esito “personale”, non “istituzionalizzabile” pena lo sfaldamento della tradizione cristiana (di ogni tradizione). Su ciò cfr. ibidem, 22 e n. 54 (nell’espressione della Campo, si tratta dell’”ecumenismo degli anti-ecumenici”); cfr. anche supra, n. 5. D’altra parte, le (talora inevitabili) convergenze e le collaborazioni, ad es. teoretiche ed editoriali, tra perennialisti e “modernisti” costituiscono la controparte degli ambivalenti recuperi, da parte di alcuni ambienti tendenzialmente “progressisti”, di figure quali la stessa Campo. In ambito orientale, l’ortodossia sembrerebbe maggiormente compatibile col perennialismo rispetto al cattolicesimo, in quanto meno “definita”, e quindi più aperta a tesi “universaliste”.
[48] Si deve anche riconoscere che si è più volte verificata, in ambito cattolico “postconciliare”, una paradossale compresenza di eccellenti analisi di religioni non cristiane – analisi che sono anche il frutto di certe “aperture” del Concilio Vaticano II – e di tendenziale disinteresse per la “sostanza” del cattolicesimo (se non addirittura di avallo di alcune deviazioni dottrinali e rituali manifestatesi su larga scala fin dagli anni ‘50), spesso unito ad un orientamento “filoprotestante”: si direbbe quasi che molti eminenti studiosi e prelati cattolici abbiano mostrato maggiori competenze nell’analisi delle altre religioni che nell’intendimento della propria!
[49] Lindsay Opie, The Enemy Within, cit. tr. it. 104 (Giovanardi, op. cit., 24).
[50] Va da sé che, anche solo da un punto di vista storico-culturale, l’idea di una storia di Occidente che metta appena in ombra il Cristianesimo è un intollerabile assurdo. Oltre alla citata lettera presentata a Paolo VI, l’attività della Campo in difesa della Messa romana partorì altri due importanti documenti. Reso pubblico nel 1966, il primo manifesto (http://www.cristinacampo.it/public/elenco%20dei%20firmatari%20del%20manifesto%20in%20difesa%20del%20rito%20liturgico%20tradizionale.doc.), voluto dalla Campo e firmato, tra gli altri, da R. Amerio, J.L. Borges, G. de Chirico, A. del Noce, C.T. Dreyer, J. Maritain, E. Montale (pochi mesi dopo eletto vicepresidente di “Una Voce-Italia”), S. Quasimodo, M. Zambrano, E. Zolla, fu sommamente significativo in quanto influenzò il papa nella decisione di preservare il latino nella liturgia romana officiata nei conventi (cfr. la Lettera Apostolica di Paolo VI Sacrificium laudis, dello stesso anno). Il secondo manifesto, anche questo attribuibile alla Campo e pubblicato nel 1971 dal Times e poco dopo, in traduzione italiana, ancora da “Una Voce Notiziario” (6, luglio 1971, p. 4. Su ciò si può vedere, con qualche riserva, G. Amato, L’indulto di Agatha Christie. Come si è salvata la messa tridentina in Inghilterra, Verona 2013), fu firmato, tra gli altri, da R. Amerio, A. Del Noce, E. Paratore, J.L. Borges, M. Luzi, E. Montale, M. Zambrano, A. Christie, J. Green, ed ebbe un altro importante effetto: l’”indulto”, concesso da Paolo VI il 5-11-1971, in relazione alla celebrazione della Messa tridentina in Inghilterra e Galles. Come nel caso del 1966, le “minoranze creative” erano costituite da studiosi ed artisti spesso “laici”, che tuttavia riconoscevano – cosa che non avvenne, paradossalmente, presso la maggior parte dei cattolici (anche nelle loro altissime gerarchie) – l’inestimabile significato almeno culturale della Messa gregoriana (si pensi anche al rapporto tra lo “spazio sacro”, l’arte e la Messa medesima).
[51] Campo, Missa Romana, in Ead., La tigre assenza, 43 (Giovanardi, op. cit., 48 n. 124).
[52] Si può pensare che il tradizionalismo (nei due sensi) sia compenetrato da una sorta di “apocalittico” culto della perfezione (teoretica ed estetico-rituale).
[53] Non a caso, la citata introduzione della Campo a Trungpa si intitola proprio “Fuga e sopravvivenza”.
[54] Secondo la dottrina cattolica, la Rivelazione, le cui due fonti sono Tradizione e Scrittura, è interpretata dal Magistero (Papa e Concili ecumenici) e quindi “definita”.