Formidabili quegli anni (di A. Bonifacio)

 

**Formidabili quegli anni

La "profezia" di Guénon  sulla rinascita della Tradizione  dai nativi nordamericani

Amico mio / torneranno/ Su tutta la Terra / Stanno tornando / Antichi insegnamenti della Terra / Antichi canti della Terra / Stanno tornando. (Cavallo Pazzo)

1970: L’anno della svolta

 

“Subito si riversò su quell’età del peggior metallo ogni nefandezza, scomparvero pudore, sincerità, lealtà; al loro posto subentrarono le frodi, gli inganni, le insidie e la violenza e la scellerata cupidigia di ricchezze. Il navigante alzava le vele ai venti, nonostante che ancora non li conoscesse bene, e quegli alberi che a lungo si erano innalzati sugli alti monti, trasformati in carene sobbalzarono sopra mari sconosciuti, e uno scaltro agrimensore assegnò lunghi confini alla terra, prima comune a tutti al pari della luce del sole e dell’aria.” (Ovidio: Metamorfosi. Traduzione a cura di Nino Scivoletto, UTET)

 

Siamo consapevoli di aver derubato a Mario Capanna, celebre leader dei sessantottini, il titolo del suo elegiaco libro sui fatti (senza misfatti) di quell'epoca rivoluzionaria che - adolescente - ha vissuto anche lo scrivente. Senz’altro il focus della contestazione d’allora era costituito dalla messa in discussione dell'intera impalcatura su cui era costruito il modello occidentale di società, accostando sintonicamente fra loro Sigmund Freud per l’aspetto, per così dire, soggettivo della de-costruzione individuale e Karl Marx per quello, per così dire, “oggettivo” concernente il “teatro” in cui si estrinseca la persona, ovvero l’articolata realtà sociale e le sue dinamiche improntate al “controllo” e alla pedissequa oppressione. 

Un derivato, pressoché occasionale, di questa angolatura di lettura fu quello posare lo sguardo in modo diverso sulle concezioni delle popolazioni indigene, nello specifico su quelle nord americane, che interessano queste note tanto che, in diretta derivazione dal ‘68, comparve il movimento degli “indiani metropolitani” che costituiva l’area più libertaria e creativa del “movimento del settantasette”.

V'è da dire tuttavia che qualcuno, già molti anni prima della presunta “rivoluzione sessantottina”, aveva volto lo sguardo alle culture native americane osservandole con occhio diverso e cogliendone il sostrato   metafisico che le improntava. Dalla loro intima e non pregiudiziale  conoscenza si era tratta una speranza di redenzione non solo per loro stesse, che, resilienti, avevano resistito, adattandosi, alla tempesta epocale che le aveva sconvolte, ma si prospettava che tale possibilità redentiva potesse divenire “universale”, grazie alle ascose sapienze di cui le stesse erano “imprintate”, quasi che un contagio spirituale potesse rettificare le ammalorate strutture del pensiero “occidentale”. Tutto ciò in una prospettiva ben più acuta di quella offerta dai nipotini del dimenticato Herbert Marcuse, che filtrava la sua concezione attraverso il vetro deformante di una visione esclusivamente materiale dell'individuo e della sua storia.

Si parla qui dell'opera di René Guénon che, pur se in pubblicazioni sparse, ci ha consegnato una teoresi pressoché completa del mondo dei nativi nord americani, riconnettendola, senza tentennamenti, a una mitologia e a una prassi rituali, direttamente riconducibile a quella contestata concezione che è passata negli studi con la locuzione di “Tradizione Primordiale”.

Scrive il Guénon, a riprova di quanto tratteggiato in precedenza: "Devo dire che sono rimasto stupito nel venire a sapere che malgrado tutte le circostanze sfavorevoli, parecchie cose vi si sono conservate intatte fino ad ora, tanto che il risveglio della loro Tradizione resta sempre possibile; può accadere, d'altronde, che le cose assumano presto da questo lato, uno sviluppo imprevisto" (S. Consolato:2023, 210).

Tale missiva è diretta a un corrispondente di Guénon, Galvao, ed è datata 24 dicembre 1947. Nel testo di Consolato, da cui essa è stata espunta, ve n'è menzionata un'altra, cronologicamente appena precedente, parimenti significativa, indirizzata stavolta a Frithjof Schuon e risalente al 16 dicembre in cui è presente questo incoraggiante passaggio;"Vedo che per quanto riguarda le tradizioni degli Indiani d'America le cose si stanno sviluppando nel modo migliore, e da tutti i punti di vista, estremamente soddisfacente" (S. Consolato, ibidem).

Questo lo spunto che ha ispirato le presenti note

1314 FIG1 Frithjof Schuon with Ren Gu in Cairo 19381314 FIG1 bis brown 1

Fig. 1, Fig. 1 bis

Frithjof_Schuon_with_René_Guénon_in_Cairo,_1938. e Josep Epes Btown, antropologo americano. A questi tre “ricercatori dello spirito” si deve una delle più importanti azioni di recupero tradizionale dello scorso secolo, avendo costoro non solo restituito lo spessore spirituale dei nativi nord americani, la cui “religione” era pressoché ignota in Occidente in quanto conosciuta, nella migliore delle ipotesi, più o meno come “animista”, ma la qualità metafisica della loro teosofia e a ciò si aggiunge il merito di aver riconnesso tali popoli al filone della “Tradizione primordiale” grazie all’individuazione del carattere “polare” di alcune manifestazioni di culto

Fonti https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Frithjof_Schuon_with_Ren%C3%A9_Gu%C3%A9non_in_Cairo,_1938.jpg /  https://www.webpages.uidaho.edu/~rfrey/brown.htm

Osservando il mondo nativo nord americano nei due secoli di quel travaglio che procede la sua fine, ovvero quello antecedente la forzata pacificazione stabilita dopo gli eventi del dicembre del 1890 a Wounded Knee, si può avvertire, quasi nell’immediatezza, lo scarto esistenziale che separa la visione del mondo dei “coloni” da quella dei “colonizzati” in cui i primi paiono essere sbarcati su un pianeta alieno, tanto difformi da loro sono le concezioni degli autoctoni.

Lo “scarto” è costituito dal fatto che, mentre il nuovo venuto graziosamente beneficiario dalle possibilità offerte dall’Eden in cui è entrato, tende a fare di se stesso un uomo “ricco”, ottenendo tale privilegio con l’assistenza del Padreterno, il nativo, contrariamente, tende a spendere la sua vita carnale per “farsi sacro”, e a tale scopo imposta l’intera sua esistenza alla conoscenza visionaria, al fine di conferire l’impronta della sacertà a ogni suo gesto quotidiano.

Una delle massime espressioni di questa connaturata tendenza mistica (per dirla alla Zolla) è l’impiego cerimoniale della sacra pipa, che fa da cornice  a  una quantità di suggerimenti rituali d’ordine sapienziale che richiamano non poco le caratteristiche della cerimonia del tè estremo orientale. Nelle lapidarie parole di un medicine men nativo John Fire Lame Deer sta tutta la diversità “ontologica” tra questi due tipi umani che vennero “sfortunatamente” in contatto circa cinque secoli fa. Le parole sono queste: Gli Indiani inseguono visioni, i bianchi i dollari.  

      

Il risveglio della coscienza

Allorquando un vecchio sapiente dei Dogon chiamò alla soglia della sua casa Marcel Griaule, allorquando Alce Nero ammise alla sua capanna il Neihard e poi Joseph Epes Brown qualcosa di irreparabile, anche se inapparente, accadde alla cultura occidentale  (Conoscenza religiosa, in C.R. I (1969), 1, p.1) i

Questo è l’incipit con cui inizia la pubblicazione di una delle più singolari riviste commercializzate nella seconda metà dello scorso secolo, una pubblicazione che sebbene sia nata negli anni della contestazione giovanile appare del tutto teoreticamente controcorrente rispetto ai contenuti di questa, in quanto orientata alla comprensione intellettuale (nel senso di intelletto del cuore) delle diverse tradizioni spirituali, comprese quelle più trascurate, facendo però parlare, quando ciò era possibile, i portavoce delle stesse. 

La rivista, sempre pubblicata sotto la direzione di Elemire Zolla, iniziò, come si legge all’esordio dl paragrafo, la propria vita editoriale sotto gli auspici di due tradizioni “esotiche” praticamente misconosciute o addirittura sconosciute al pubblico italiano (e non solo), quella dei Dogon africani e quella dei Sioux nord americani ed è ben curioso, almeno all’apparenza, che con una così insolita presentazione s’inauguri un fascicolo dedicato alla “Conoscenza Religiosa”. L’ingresso “culturale” di tali esotiche tradizioni spirituali avrebbe dovuto, nelle intenzioni dell’ideatore della collana, rompere il tetto di cristallo della stantia nostrana cultura, costringendola, sia pure indirettamente, a fare i conti con la miopia intellettuale che la caratterizzava. Si proponeva perciò una lettura apertamente critica dei “fondamentali” che legano inautenticamente i rapporti degli uomini tra loro, tra la società e tra l’ambiente che li circonda, innestando provocazioni culturalmente fecondanti ma procedendo sul terreno dell’innovazione in senso sostanzialmente opposto a quello proposto e successivamente imposto (almeno in parte) dall’orientamento prevalente venuto in essere negli anni seguenti il 1968, coi cui cascami ancora facciamo i conti.

Questa la sintetica premessa

In un breve spazio d’intervento come questo si deve necessariamente offrire un’informazione sintetica, senz’altro suscettibile di approfondimenti, in ordine alla rivalutazione dei popoli nativi, storicamente oggetti di una campagna di repressione feroce e intransigente che ha portato alla loro quasi eliminazione dal globo terracqueo o, comunque, al tentativo, quasi sempre riuscito, di assorbirli e quindi omologarli in un sistema di pensiero a loro costituzionalmente estraneo; ciò a ragione della presenza di una vera e propria difformità spirituale che questi presentano rispetto alla mentalità dell’Occidente postilluminista. Qualcuno ha definito queste culture “tradizionali”, resistenti e resilienti alle sirene dell’occidentalismo, "culture a universi multipli".

La posizione guénoniana e quella di altri studiosi “tradizionalisti” concepisce il corso degli eventi che determinò la nascita degli Stati Uniti d’America come l’affermarsi conclusivo del Regno della Quantità, mentre il mondo nativo, da cui Guénon ebbe informazioni piuttosto accurate, rappresentò, per il metafisico di Blois, l’espressione ancora pura e incontaminata di quella Tradizione primordiale che è il fuoco centrale della sua visione spirituale degli accadimenti ciclici che ritmano nei millenni la storia degli uomini. Ciò risultò evidente interpretando i riti nativi conosciuti anche grazie alla mediazione dello Schuon e di Joseph Epes Brown che furono, in qualche modo e per circostanze su cui non ci soffermiamo, quasi gli agenti del “guénonismo” nel Nuovo Mondo.

Diciamo subito che la fervida posizione dei “tradizionalisti” è piuttosto isolata nella complessiva rivalutazione postuma delle tradizioni native perché discende da una posizione interpretativa d’ordine spirituale del tutto sovrastrutturale rispetto al commento degli accadimenti storici e alle suggestioni epidermiche dei contestatori d’allora. Pochi si spingono a condividere la radicale opposizione tra due visioni del mondo, “nativa” e “occidentale” che sarebbero tra loro agli antipodi.

La prospettiva nativa, alla luce del pensiero del cenacolo guénoniano, legge ogni aspetto della realtà dietro la lente della visione spirituale, un poco come vedere le cose già in divinis, come afferma San Paolo: Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia (1 Cor. 13, 12). Diversamente da San Paolo però questa possibilità sarebbe già data in potenza ai “visionari autoctoni”, non rimettendola quindi al futuro (l’avverbio allora), quanto piuttosto all’adesso, pertanto già in questa vita. Da ciò l’intrinseco conservatorismo nativo centrato sulla natura, specchio teofanico da non infrangere assolutamente, per ottenere la succitata “visione”. L’altro “punto di vista” legge tutto alla luce del divenire e la circostanza della “conquista” del West, con tutte le trasformazioni epocali che essa ha comportato, concreta il consolidarsi di una prospettiva che si potrebbe grossolanamente definire come “hegeliana”  

Si dirà, molto semplicemente, che il Guènon ha sviluppato le sue convinzioni su queste culture ad “ovest” della sua persona e degli interessi per i quali è maggiormente conosciuto, in interventi sparsi nel suo vasto corpus di scritti, così come perimenti se ne trovano tracce nel suo notevole corpus di epistole (la cui disamina è tuttora in fieri). Dalla estrazione e dalla consultazione di pur tale esiguo materiale, si rivela in maniera inequivoca il carattere specifico della spiritualità nativa e ciò in piena contrapposizione alla vulgata allora messa in giro per svilirne la reale dimensione metafisica del “pensiero selvaggio”.

L’articolo dal titolo Silenzio e solitudine manifesta perfettamente la “novità”  dell’indelebile impostazione guénoniana del tema. In esso, difatti, si sviluppano convincenti argomentazioni su due aspetti della relazione “apicale” che i nativi hanno con il “divino”, ubiquamente ivi riscontrati, che si rendono manifesti nella “preghiera silenziosa” (assonante al dhikr sufico e alla preghiera silenziosa dell’esicasmo) e al “silenzio come preghiera” di porfiriana similitudine. Pertanto questo breve, quanto denso, scritto del Guénon è, a parer nostro, davvero d’importanza capitale per la comprensione del gratuito svilimento che ha investito quelle popolazioni, perché esso getta un fascio di luce davvero “disinfettante” sulla spiritualità nativa orrendamente offesa da cinque secoli d’incomprensione (se non manipolazione) religiosa e successiva repressione proveniente congiuntamente dai congiunti rappresentanti del Regno della Quantità.

Gli Interventi correttivi del gruppo formato dai citati R. Guénon. F. Schuon. E Brown, nonché di Arthur Versluis, H. Nasr e Ananda K. Coomaraswamy, in una elencazione certamente non totalmente esaustiva ma sicuramente  significativa, formano, per così dire, una sorta di acropoli concettuale o di “scuola di Atene” in ordine alla metafisica e alla correlativa simbologia dei popoli del Continente Tartaruga, ma, come detto, costituiscono la punta più qualificata della cuspide di un’intera cattedrale inghiottita destinata a riemergere nel giro di pochi anni, in un processo il cui innesco è probabilmente da rintracciarsi nel lavoro di demistificazione del suprematismo dei pellebianca operato dai nomi appena citati.

Detto ciò nella circostanza si vorrebbero proporre, attraverso una comparazione di espressioni “storiche”, la possibilità di conferire validità alla “profezia” guénoniana circa l’auspicata rinascenza della Tradizione, il cui apparire e velarsi è legato alla ciclicità propria del “tempo”. Di seguito a ciò si può ipotizzare che la Tradizione rinasca proprio laddove essa appare solo velata ma non pressoché cancellata come è accaduto presso i nostri lidi, ovvero si constata che essa si rianimi, dopo un periodo di apnea in cui si è conservata come un insetto nell’ambra, in quelle etnie incomprese e disprezzate dalla storia e ritenute “primitive”, ovvero selvagge e retrograde, quasi darwinianamente paragonate a ingombranti scarti dell’evoluzione umana.

Oggi si è consapevoli del fatto di essere di fronte a una brutale operazione (non riuscita) di cancellazione culturale, evidentemente messa in atto dai “vincitori”, e a proposito del valore che possono assumere questi “scarti” pare opportuno richiamare l’enigmatico passaggio del Salmo che così recita “La pietra rifiutata dai costruttori è diventata la pietra principale. Questo è opera del Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi!” (Salmo 118, 22-23).

Premesso ciò si dichiara che lo scopo di questo piccolo scritto è quello di valorizzare in modo possibilmente adeguato alcune opere saggistiche e cinematografiche che, nate in contesti diversi, hanno singolarmente mostrato, “precipitando” congiuntamente nella stessa epoca (più o meno in quinquennio), quasi come si fosse in presenza di una soluzione chimica supersatura, un atteggiamento verso l’Indiano completamente diverso da quello consolidatosi nei secoli precedenti, mostrando così che proprio da questa pietra scartata possa riprendere vita una nuova e insieme “arcaicissima” visione del mondo. Nella concezione del “colono” l’”Indiano” concentrava su di sé la somma di tutte le nefandezze che possono riguardare l’essere umano, e questa dispregiativa valutazione permetteva di immaginare e con una certa disinvoltura, in quanto affermato apertis verbis, l’eliminazione fisica tout court del “diverso”.

Nel “nuovo corso”, inauguratosi per l’appunto alla fine degli anni ’60,  nacquero una serie di opere, quelle che nelle pagine successive sinteticamente si richiameranno, che hanno, almeno in parte, risarcito gli abitanti del Continente Tartaruga del sopruso ideologico principiale fondato sulla loro presunta minorità ontologica giustificatrice d’ogni nequizia compiuta nei loro confronti, tanto che si era giunti a poter affermare che gli “Indiani non hanno diritti”.

La singolarità di questo “cambio di vento” è costituito dalla quasi contemporaneità dell’apparizione di diverse “testimonianze a favore” dell’imputato autoctono, circostanza temporale che parrebbe rivestire quasi un carattere fatidico; inoltre è da sottolineare il fatto che, rispetto agli approcci filosofici del citato cenacolo di “interpreti della tradizione”, destinato a essere consumato in ristrette cerchie di simpatizzanti, questo mutato indirizzo ideologico, premessa del cangiamento, si è esplicato in un ambito d’ordine storico - e quindi documentario - attraverso una varietà di contributi davvero notevole di cui si apprezzerà la qualità e l’incisività nelle pagine che seguono. Tutto ciò ha influito sulla mentalità di una molteplicità di persone, se non sulle stesse masse, liberando i nativi dalle pregiudiziali gabbie valutative che da secoli li confinavano in un limbo evolutivo, alla stregua di un relitto al di fuori della storia.

Questo fatto (fatto e quindi non opinione) assume i contorni di un albeggiare  della realizzazione di quanto auspicato dalla “profezia” guénoniana dal momento che la demistificazione dell’”epopea del genocidio”, inteso ciò globalmente e quindi come eliminazione delle caratteristiche dello spirito pellerossa in ogni campo, è il realizzarsi di un primo passo verso una più integrale concretarsi della “rivoluzione” guénoniana, ovvero il “quasi” ritorno al punto di partenza (questo è il secondo aspetto del termine “rivoluzione” come lo intende il Guénon)

È bene ricordare che i riti di molte delle etnie indiane sono attualmente praticati secondo le ancestrali tradizioni, nonostante il nuovo ordine sociale in cui i nativi attualmente vivono, e queste attività sono rivolte a beneficio dell'umanità nella sua globalità, nonché al mondo che ci ospita e quindi non riguardano più un’etnia o il “popolo rosso” ma la totalità del “creato”messo in pericolo dall’azione devastante del “progresso”.    

In definitiva in quegli “anni formidabili” si ruppe l’argine dell’odioso pregiudizio e la menzogna finalmente cominciò da esso a defluire. 

Seppellite il mio cuore a Wounded Knee,

“Nella civiltà greca ci sono due miti che si contrappongono, quello di Orfeo, il cantore che suonava il flauto incantando uomini e animali, e che è strumento di una pacificazione e quello di Prometeo, che è il mito opposto, della forza e della guerra. Zolla diceva che l’Occidente è dominato da questi due miti e la scelta, che la storia ha fatto di Prometeo rispetto ad Orfeo, ci ha portato alla situazione di conflitto di cui noi siamo tutti vittime oggi.” (Grazia Marchiano)

Non si può evidentemente indicare la primazialità di un opera che “ruppe l’argine” di cui sopra ma è da ritenersi che la demifisticazione più integrale dell’epopea western si trova raccolta in un libro che si può considerare ormai un grande superclassico sul tema. Si tratta di un testo che ha scosso molte coscienze e che risale appunto al 1970 e i cui contenuti sono stati tanto deflagranti da far si che tale scritto sia stato continuativamente riproposto negli anni successivi alla sua pubblicazione. Il suo titolo è Seppellite il mio cuore a Wounded Knee, e ne è autore lo scrittore, storico e bibliotecario americano, Dee Brown.

La pubblicazione del saggio ha costituito davvero una svolta epocale in ordine al tema del “problema indiano” in quanto, pur se Dee Brown ha trattato senz’altro empaticamente tutta la inarrestabile parabola discendente dei nativi, tuttavia ha condotto questa ricostruzione storica senza cadere in quei facili patetismi, che solitamente utilizzano gli autori “schierati”; tali espedienti sarebbero stati difatti strumenti di facile apprezzamento nella circostanza del tema esaminato in quelle pagine, tuttavia non è questo il caso di specie.

Detto ciò a premessa, appare evidente che il libro è talmente inclinato verso le accantonate ragioni dei Nativi che molti hanno supposto che l’autore fosse uno di loro, senza che però questa illazione trovi corrispondenza con la realtà.

Il pionieristico lavoro di Dee Brown prende in esame il terribile trentennio che va dal 1860-1890 che, invero, fu fatale per le nazioni indiane. Il saggio si conclude difatti nel 1890 perché in quell’anno avvenne il citato massacro di Wounded Knee. Qui accadde che, in piena consonanza di intendimenti fra tutti i poteri, si portò a brusca soluzione finale il tema dell’indipendenza dei nativi, mentre, a contemporanea compensazione delle malefatte compiute, si provvide parallelamente a costruire il mito farlocco dell’epopea del West e della “frontiera” come destino ineluttabile perché “manifesto”, locuzione che evidenziava il carattere provvidenziale dell’assegnazione al “nuovo popolo” dei territori della nazione che si stava formando. Si trattava, in buona sostanza, di una vera e propria campagna promozionale che avrebbe dovuto coprire il genocidio fisico e culturale, nonché l’ecocidio praticato senza ritegno, quest’ultimo tuttora in atto.

Wounded Knee, come è noto, costituisce lo spartiacque tra un “prima” e un “dopo” e, appunto, dopo questo “medagliato” massacro, il governo ebbe mano libera con gli autoctoni senza più dover trattare con loro, essendo questi ormai ristretti in improduttive riserve e di cui per conseguenza  la pericolosità  “etnica” era totalmente disinnescata.

Questa concordanza di intendimenti tra i diversi poteri che gestivano le sorti spirituali e materiali dei nativi portò alla fine al risultato sperato e la cortina messa in atto dall’apparato propagandistico è descritta nella presentazione del testo. Essa sintetizza mirabilmente l’opera di mimetizzazione compiuta congiuntamente dai sottocitati nuovi venuti, qualsiasi fosse il loro credo d’appartenenza: “I racconti dei commercianti di pellicce, dei missionari, dei cercatori d'oro, delle Giacche Blu, degli avventurieri, dei costruttori di ferrovie e di città stendono una fitta coltre che nasconde la versione indiana sulla conquista del West”.

È ben evidente che tutto questo castello pseudoepico reca un sordido sottofondo esclusivamente affaristico, la nuova civiltà è la civiltà degli affari e dell’”egoismo radicale” vantato, praticato e giustificato come forma di elettivo individualismo. Questa è la chiave per comprendere l’inutilità del pensiero nativo tal quale, dal momento che esso si presenta con il suo volto connaturatamente anticapitalistico e quindi irrimediabilmente antistorico e che, per conseguenza, non merita altro destino che di essere spazzato via e ciò senza reticenza alcuna.

In questa cornice è parimenti lampante che il pensiero dei nativi, la forma spirituale della loro anima e soprattutto l’anti-antropocentrismo - tratto caratteristico delle concezioni degli autoctoni, da momento che conferivano sovente nomi di animali ai propri figli - , non aveva più ragione di sussistere in quanto ciò era giudicato come un residuo di mere superstizioni di un’epoca irrimediabilmente superata.

A proposito del “non-antropocentrismo” degli Indiani, pur tenendo conto della complessità etnica e dei possibili distinguo, non si può certo negare che sebbene essi fossero prodi e coriacei guerrieri, spesso anche crudeli e feroci, tuttavia non scelsero preferenzialmente come regola del loro esistere la suindicata via di Prometeo , piuttosto seguirono, nei rapporti “olistici” (come si dice oggi) con il creato, le orme di Orfeo e del suo strumento pacificamente incantatore.

Grazie alla somma dei talenti posseduti da Dee Brown e all’accesso alle molteplici fonti del pensiero indiano - ottenute da procurate consultazione orali presso gli anziani nativi sopravvissuti, nonché mercé l’accesso a fonti scritte evidentemente secondarie e per questo trascurate o occultate da altri occhi e e da altre mani - , la “fievole voce” dei nativi non è andata perduta del tutto e anzi essa man mano ha ripreso vigore in un‘incessante opera di riemersione della materia inghiottita, tanto che oggi la pubblicistica che riguarda gli Indiani d’America vanta numerosissimi titoli e un vasto numero di studiosi e appassionati che ne alimentano l’interesse.

Alcuni ricordi, alcune testimonianze dimenticate negli angoli bui della trionfante cultura progressista hanno, per fortuna, scampato all’epurazione e resistito al tempo. Sono tracce sparse d’un passato complesso e articolato fatto di conservate pittografie, reperti accantonati, fotografie d’epoca (si  pensi all’opera di documentazione di Edward Curtis), che formano il corpus storico della “polvere sotto il tappeto”, una memoria sepolta è progressivamente riemersa, che non ha consentito l’annichilimento delle culture aborigene e  che quindi ne ha permesso la ricostruzione. Tuttavia i documenti, forse principe dell’”affare indiano”, sono i significativi verbali degli incontri ufficiali tra controparti, dove si mostra come l’arte dello scippo raggiunga livelli di insormontabile arroganza.

Tra il materiale di scavo che Brown ha pazientemente ricercato e trovato ci sono quindi le preziose e rarissime interviste raccolte da giornalisti dell’epoca a quei soggetti che si possono definire figurativamente come “quelli delle  lingue tagliate”, ossia i rappresentanti degli autoctoni che narrano gli eventi, una volta tanto, dalla sponda dei vinti. La somma di tutto ciò giunge a un unico risultato: nei trenta anni presi in esame è stato usato ogni escamotage, anche il più infimo, per derubare gli Indiani di ogni loro “possedimento” e, accanto a ciò tutto, è stato tentato di derubargli l’anima, praticando in tutte in tutte le forme possibili un pianificato intervento di lobotomia spirituale.

L’”oro è più malefico del ferro” scrisse Ovidio nelle Metamorfosi e difatti in nome dell’oro si legifererà sull’anima stessa degli Indiani, obbligandoli, ad esempio, a trasformare il gruppo, fonte di coesione spirituale e poi sociale, formato da una famiglia estesa, in tante famiglie nucleari avidamente conchiuse in loro stesse e istruite allo scopo di soddisfare i propri “egoistici” interessi.

Così avvenne per mezzo dell’astuta legge Dawes, un mezzo legale attraverso il quale, grazie ai meccanismi messi a punto con spietato cinismo dal legislatore, si cercarono di ottenere diversi risultati convergenti nella trasformazione dell’indiano in un subalterno del sistema che si stava progressivamente consolidando.

In prima battuta la Commissione Dawes (tenuta dal 1893 al 1914) ha sviluppato una proposta per rompere la "Grande Riserva Sioux" per consentire di soddisfare le richieste americane di nuovo territorio, preservando, allo stesso tempo, una zona di possesso indigeno ritenuta sufficientemente ampia affinché i Sioux ci potessero (appena) vivere facendo così prosperare i coloni nelle nuove terre “assegnate”. A questo piano si oppose Toro Seduto, uno degli ultimi capi a lottare per l’indipendenza della sua gente. Nonostante il fatto che Henry L. Dawes, sapesse che le condizioni della riserva non consentivano ulteriori riduzioni territoriali, se non mettendo alla fame i nativi, egli non si arrese e per questo architettò un progetto per “obbligarli” a diventare “perfettamente” egoisti e quindi “perfettamente” americani. Un progetto che, una volta messo in atto, avrebbe raggiunto due decisivi traguardi contemporaneamente ossia: eliminare qualsiasi residuo di presunta “primitività” negli sconfitti, ormai apparentemente pressoché rassegnati alla sottomissione, e correlativamente trasferire, attraverso il frazionamento delle residue terre rimaste in mano ai nativi dopo l’assegnazione ai nuclei familiari, i territori indiani “d’avanzo” ai pellebianca. Queste immense superfici sarebbero state quindi generosamente attribuite  alla “grande razza”, ovvero a quella componente, prevalentemente nord-europea dell’immigrazione, che stava “creando” l’America, la cui supremazia ebbe come mentore e cantore l’avvocato eugenista Madison Grant che teorizzò tutto ciò, con grande successo e seguito, qualche decennio dopo gli eventi che si narrano nel libro di Dee Brown.

Henry L. Dawes, com’era prevedibile, in nome del “progresso”, l’”apriti sesamo” di ogni sopruso, l’ebbe facilmente vinta sui suoi ostacolatori e, quindi, nel 1887 fu infine emanata la disposizione che reca il suo nome: il Dawes Act. Così c’informa Wikipedia della circostanza: “durante i 47 anni di attuazione di quella legge, i nativi americani persero circa 90 milioni di acri (360.000 km²m un’area più vasta dell’Italia tutta n.d.r.) di terra dei trattati, quasi due terzi del loro territorio del 1887, e circa 90.000 indiani furono resi senza terra”.

Come si vede un saccheggio scientemente programmato di territori già abbondantemente erosi nei due secoli precedenti, tuttavia il danno, per nulla collaterale, più significativo prodotto dall’implementazione del Dawes Act fu che con esso s’interruppe la vita comune, la cultura, l'unità delle tribù dei nativi americani.

Ecco, può senz’altro affermarsi che il libro di Brown. proprio perché basato su fonti storiche inoppugnabili, abbia davvero gettato in quel fatidico anno non un sasso, bensì un macigno in piccionaia. obbligando così gli “uomini di buona volontà“ a “prendere coscienza”, come si dice con abusata espressione, che il mito del selvaggio West in cui si aggirano dei barbari (se non diavoli) urlanti (come ebbe a dire Giulio Cesare in ben altre circostanze), narrazione epica cui avevano indefessamente creduto i loro padri e i loro nonni, era un costrutto senza fondamento alcuno.

Il pensiero del Nativi non ha nulla di “selvaggio”, perché la spiritualità indiana non è affatto superficialmente “animista”, e la conquista del West, parimenti, non è affatto “eroica”, nei suoi comportamenti concreti, perché l’”eroe”, nel senso comune del termine, e non nella cornice proposta da Angelo Brelich, è un “puro”, di spirito tolkieniano, e pertanto gli atti che compie sono totalmente disinteressati, non calcolando questi l’esito della sua azione che viene compiuta spontaneamente senza promessa di frutto, contrariamente a quanto è stato pianificato nella storia del genocidio americano, sul cui unico evidente scopo lucrativo non ci soffermeremo ulteriormente.    

Da quanto esposto si comprenderà il perdurare del successo di questo saggio che, ormai piuttosto datato, non ha perso assolutamente nulla della sua freschezza narrativa.

Tutto questo successo, ex post degli eventi narrati, ha probabilmente un nome: si chiama Nemesi

Il discorso di Capo Seatlle e l'intelligenza della terra.

Tanto più Dio è in tutte le cose, tanto più Egli è fuori di loro. Tanto più Egli è all’interno, tanto più è all’esterno (Meister Eckart)

Il discorso di Capo Seatlle, di cui qui si tratta, è davvero un capolavoro di prosa in cui si equilibrano gli elementi di denuncia, resi in alcuni passaggi sottilmente ironici, e il dolore di chi vede un mondo, il proprio mondo, alla fine e, allo stesso tempo, non si rassegna all’estinzione e lancia un avvertimento profetico sul destino delle generazioni future che si sono disconnesse dal cosmos e hanno altresì rinnegato l'”Intelligenza della terra”, tutt’altro che un’inerte geoide orbitante attorno la  sua stella.

La “testimonianza” che offre quindi questo capo indiano, resa nel momento in cui gli viene comunicato che dovrà allontanarsi con la sua gente dal luogo dove vive da tempo immemorabile e in cui riposano le sue memorie ancestrali, è di straordinaria importanza per gli eventi che si genereranno dopo la sua proclamazione .

Il testo, proprio per questa sua attuale cogenza, è stata inserito nel volume dal titolo Oikisophia (sott: dall’intelligenza del cuore all’ecofilosiofia), presente nella collana Quaderni di studi indomediterranei, diretta da Carlo Saccone e del cui comitato direttivo fa parte, oltre il predetto Saccone, lo studioso Alessandro Grossato e la prof. Daniela Boccasini. Alla curatela di quest’ultima sono stati affidati i numerosi contributi presenti nella raccolta e la ricercatrice si è altresì personalmente occupata di questo testo, sia dal punto di vista storico-letterario, sia da quello contenutistico, facendone precedere la lettura, per beneficio del lettore, da un piccolo e denso saggio dal titolo Il discorso di Capo Seattle e l’intelligenza della terra.  

A questo punto è senz’altro da notare la circostanza che la pubblicazione del citato Seppellite il mio cuore a Wounded Knee sia avvenuta, in quasi perfetta coincidenza con la pubblica lettura del discorso di Capo Seath, una declamazione eseguita dal suo competente "adattatore" in lingua inglese, il letterato William Arrowsmith, nel contesto della prima Giornata della Terra tenutosi nel campus dell'Università del Texas ad Austin il 22 aprile 1970. È da notare, perché lo precisa la stessa Boccassini, che fu grazie a quella performance orale che il discorso da allora divenne “virale”(:2018, 363)   

La citata declamazione, impostata adeguatamente per conferire autorevolezza alle potenti parole del capo indiano Seatlh, pronunciare in origine in lingua Susquamich più di un secolo prima, costituì quasi una benedizione per l'esordio di uno dei primi gruppi “ambientalisti”, così come s’intrecciò parallelamente con le istanze rivendicative dell’American Indian Movement.  

Da quella data le parole di quella performance si resero inossidabili al tempo ed esse hanno cominciato a percorrere la terra per mai arrestare il proprio vigore espositivo, continuando a essere lette, come sta ora facendo chi qui ne scrive, nella convinzione che la loro importanza non riguardi il solo momento storico in cui furono pronunciate e le sole parti coinvolte nel testo, ma che essa sia del tutto atemporale e globale. 

I contenuti del discorso, tra altre cose, costituiscono un autentico manifesto della concezione antiantropocentrica che è alla base della visione ecofilosofica delle popolazioni native nordamericane nella loro totalità e per questo tale atteggiamento si distingue nettamente dall’ecologismo “nostrano”, che non ha nulla di “sophianico”. Da quanto premesso si desume che il minuzioso lavoro “filologico” compiuto da William Arrowsmith nel ridare autenticità al verbo nativo attraverso una precisa ricostruzione del sentimento che ne sorregge interiormente la pronuncia, abbia davvero restituito “l’anima” di chi quelle parole pronunciò circa un secolo prima e, con esso, l’imperituro sentimento di un popolo defraudato, cui questi apparteneva e di cui era responsabile, riuscendo a comunicare planetariamente il disagio dell’esproprio.

La concezione locale del rapporto tra l’uomo e la natura ha scavalcato  ogni confine e alimenta pervasivamente l’oggidì, senza che però si possa  sufficientemente comprendere con quanta consapevolezza ciò avvenga. Il “sentimento ecologico” di noi contemporanei è alquanto bizzarro, diciamo estetico, dal momento che mai si sopporterebbe di vivere odiernamente come un indiano, non avendo “noi” come questi il “dono” - in realtà una dura conquista- , della “visione” che rende possibile il “dialogo” circolare tra le specie viventi. 

Per completezza si ricorda che la ricostruzione di William Arrowsmith del discorso nasceva dagli appunti scritti in “inglese vittoriano”, presi alla distanza di più di un secolo dalla ricomposizione di Arrowsmith, da un giovane medico, tale Henry Smith, presente alla originale circostanza, Tali contenuti sono poi passati, come un testimone generazionale, oralmente tra la popolazione nativa e, per iscritto, a quella degli emigrati europei, tramandandosi così per un lungo periodo. Tuttavia ciò si concretò in versioni sempre diverse, seppur mantenendo ciascuna l’ossatura spirituale che ne contraddistingueva i contenuti. Grazie alla passione e alle competenze di Arroswith, docente di lettere classiche e “appassionato di oralità arcaica”, nonché “curioso” di “eloquenza indigena” di cui era estimatore, il discorso è stato nella circostanza rievocata “rimesso a nuovo” ed è stato riconosciuto come autentico dai nativi di lingua Suquanich da cui Capo Seattle proveniva e poi dalla sussiegosa critica che ne aveva lungamente contestato l’autenticità. 

Si deve, come spesso è accaduto, al benemerito Elemire Zolla - che pare non goda di molte “rievocazioni accademiche” rispetto ad altri trapassati, come del resto è accaduto nella sua vita di studioso “appestato” in quanto bersagliato di risibili accuse “reazionarie” -, la prodigiosa attività di recupero d’ogni fonte tradizionale sparsa nel mondo, e a questi va il merito d’aver pubblicato questa allocuzione, sintesi esemplare del pensiero nativo americano, sulle colonne della sua rivista Conoscenza Religiosa, insieme ad altre proclamazioni native di consimile foggia (Discorsi d’Indiani d’America, luglio-settembre 1973). Per volontà di Zolla la rivista ospiterà nel tempo altri celebri interventi sulle tematiche spirituali concernenti i nativi nord-americani, scritti provenienti da autorevoli specialisti di queste culture, di cui qui non se cita alcuno per non fare torto a nessuno, raccogliendosi una silloge esaustiva di tali saggi nel volume Civiltà indigene d’America, pubblicato successivamente alla chiusura della rivista.

1314 FIG2 zolla marchiano1

Fig. 2 Grazia Marchianò ed Elemire Zolla

Grazie alla sua rivista Conoscenza Religiosa e ai contenuti dei suoi numerosi libri, il poliedrico Zolla fece conoscere molte tradizioni spirituali altrimenti ignote e i benefici effetti di queste incursioni si sono fatti sentire nel tempo generando una cospicua saggistica a questi temi dedicata, nonostante la gratuita ostilità ambientale da cui era circondato. Così è stato per l’esperienza letteraria e spirituale di William Arrowsmith che ha potuto pubblicare nel 1973, proprio sulla rivista diretta da Zolla, i principali e significativi discorsi di diversi esponenti delle tradizioni indiane la cui salvaguardia è stata accresciuta proprio grazie all’interesse mostrato verso di esse, non solo nel mondo extraaccademico ma anche in quello accademico nel quale operavano appunto il citato J Epes Broown, il “nostro” Elemire Zolla e William Arrowsmith, nomi di spicco tra diversi altri che non si possono enumerare.

Fonte:  https://www.facebook.com/128578900882321/photos/elemire-zolla-il-conoscitore-di-segreti-una-biografia-intellettuale-di-grazia-ma/205370636536480/?locale=pt_PT&paipv=0&eav=AfaIwjs9Ik15II58MxXo3cQGA1Dp3CRWhcKg2WOztoDTTiC09Aoi_VPFSVKg24gX-rs&_rdr

Come appena detto la Boccassini ha giustamente rilevato nel suo intervento introduttivo che la lettura dell’allocuzione da parte di Arrowsmith ad Austin è pressoché contemporanea all’uscita del libro di Dee Brown, come si è evidenziato nelle pagine precedenti, così non può suonare che parimenti singolare il fatto che uno studioso nativo americano di nome Vine Delonia jr. (definito "la stella del rinascimento degli indiani d'America"), ancorché teologo e noto saggista - purtroppo intradotto dalle nostre parti. nonostante abbia pubblicato circa venti libri, alcuni di notevole importanza storica -, sia autore di un dirompente testo dal significativo titolo God is red (ripubblicato per la sua insuperata attualità dopo trenta anni) nei primi anni ‘70. A tale proposito è stata rilevata la sincronica circostanza (ancora!) per cui la pubblicazione del testo si trova temporalmente a coincidere, con l’occupazione del sito di Wounded Kneed da parte di circa 200 Sioux Lakota avvenuta nel 1973 al fine di rivendicare  quei diritti che da sempre gli erano negati.

Una “coincidenza” davvero notevole perché, diversamente da J Epes Brown, il lavoro di Vine Delonia jr., ha senz’altro come presupposto la volontà di sottolineare la grandezza spirituale dei pellerossa ma, proprio in ragione di questa constatazione, il linguaggio dello studioso, pur condito costantemente da una pungente e sdrammatizzante ironia, si fa politico e si affila  in tal modo da divenire ficcante e parimenti intransigentemente rivendicativo, reclamando qualcosa di inaudito, ovvero la piena sovranità delle stirpi native dall’attuale controllo di Washington.        

Se quindi l’evento politico accaduto nel 1973 ebbe grande risonanza, anche perché la spettacolare occupazione di Wounded Kneed durò ben 71 giorni, distinguendosi per vari episodi di ben differente registro di cui alcuni particolarmente drammatici, non meno dirompente può essere considerato il libro di Vine Delonia jr..

L’autore considerava la civiltà dei pellebianca sostanzialmente antiteistica dal momento che in questa si relega l’universo nativo e la totalità dei suoi abitanti di ogni specie, specie ritenute anch’esse come “senzienti”, come espressione e residuo di una pregressa dimensione “selvaggia”, una dimensione che il “Nuovo Venuto” dal mare si proponeva di sradicare perché la riteneva fantasiosamente mitopoietica e quindi attardata e, conseguentemente, ostacolatrice del “progresso”. Per questo la presentazione di God is red comunica subito al lettore le radicali intenzioni del suo autore sulla tematica e o lo fa con queste parole: ”È giunto di nuovo il momento di ascoltare la voce potente di Vine Deloria Jr., che ci parla della vita religiosa che è indipendente dal cristianesimo e che venera l'interconnessione di tutti gli esseri viventi”.

1314 FIG3 GODISRED

Fig. 3

Questo è forse il libro di Deloria più famoso e discusso

Fonte: https://www.google.com/books/edition/_/HpFIwSxBML0C?sa=X&ved=2ahUKEwj7odSE

 

L’uomo rosso, non ci stancheremo mai di ripeterlo, era intimamente convinto di dover proteggere il cosmos che aveva dintorno, perché la sua concezione era, per così dire, involontariamente eckhartiana per cui era esplicito che “Dio fosse anche nelle cose” (vedi supra in esergo); come dire “tutto è pieno di Giove”, e con tale corticalizzata imbibizione si viveva il rapporto con l’alterità, dal momento che: "... siamo parte della natura, non una specie trascendente senza responsabilità nei confronti del mondo naturale". Su ciò scrive Boccassini a commento: “La custodia di tali concezioni, di tali principi identificanti, costituiva comunque la medesima risposta ‘intrinsecamente indiana’ all’avanzata colonizzatrice, nel comune dar voce alla terra, agli animali, ai morti, di fronte al dilagare della sopraffazione imposta dall’uomo bianco al ritmo olistico, circolare della vita ancestrale”  (2018:365)  

In effetti Deloria è stato un personaggio davvero singolare perché ha cumulato nella sua esistenza molte esperienze, utilizzando i suoi molteplici talenti in disparati campi, persino in guerra come marine, tanto da essere stato nominato dalla rivista Time come uno dei pensatori religiosi più importanti del 20° secolo avendo avuto un'influenza davvero leggendaria su tutte le comunità indiane.

Si è detto che Delonia è stato teologo, nonché storico e in seguito a ciò ha anche insegnato in diverse università. Al compito intellettuale  da tavolino ha conseguentemente e intensamente affiancato quello di avvocato “attivista” impegnato, in prima, anzi in “primissima” linea, nella difesa dei diritti degli Indiani attraverso la valorizzazione della loro tradizione orale.

Spiritualmente ma, in parallelo, anche politicamente, importantissima è la posizione assunta nei confronti con i pellebianca nella sua "Tetralogia del potere rosso", un poker di scritti che sono da considerare le sue opere più potenti e polemiche. Essi sono: Custer Died for Your Sins (1969), We Talk, You Listen (1970), il citato God Is Red: A Native View of Religion (1973) e The Indian Affair (1974). Come si vede le ravvicinate date di edizioni di questo corpus coincidono con il contemporaneo affermarsi delle riconosciute grandi figure della spiritualità indiana, ossia Lame Deer e Black Elk, le quali hanno alimentato la migliore comprensione del misconosciuto aspetto “mistico” e “interiore” dell’esperienza nativa.

In questa tetralogia Delonia affrontò, veramente di petto, tutti i variegati aspetti che avevano concorso e concorrevano all’oppressione discriminatrice: i principi del cristianesimo, le politiche del Bureau of Indian Affairs e le teorie dell'antropologia.

Il concetto di autodeterminazione tribale da lui convintamente avviato ribaltava i presupposti della società dominante, inclusi le opinioni di vari “esperti indiani”, e affermava, come già anticipato, che le tribù avevano gli stessi diritti delle nazioni sovrane che erano indipendenti nei loro rapporti con gli Stati Uniti e quindi lo erano legalmente, politicamente, culturalmente, storicamente e religiosamente. Non per nulla a tal proposito è da ricordare che fino al 1830, anno della proclamazione del prima citato Indian Removal Act, il dibattito politico centrato sul riconoscere i territori indiani quali enclavi dei nascenti Stati Uniti d’America era ancora vivacemente aperto con i missionari e altri soggetti autorevoli che premevano per questa soluzione “separatista”. Fu il presidente Andrew Jackson, che impose il suo Indian Removal Act e con ciò questi è riuscito a ottenere due fondamentali risultati per quelli che saranno gli sviluppi futuri dell’America, ovvero una grande operazione di pulizia etnica (perché per tali finalità il provvedimento è pubblicamente conosciuto) e il tramonto, forse definitivo, d’ogni pretesa e possibilità d’esistenza di una nazione o più nazioni indiane.

Questa forzato tentativo d’assimilazione, che tuttora perdura, è opposto al comportamento che si aveva, ancor di recente, con gli afroamericani. Deloria ha notato infatti le somiglianze nell'oppressione sia dei nativi americani che degli afroamericani, ma ha anche sottolineato le differenze tra i due. Mentre si tendeva a escludere gli afroamericani dalla società bianca, l'atteggiamento verso i nativi americani era opposto e si pretendeva la loro inclusione anche se questa era forzata. La spiegazione di questa diversità di comportamento riposa sul fatto che la difesa dei Nativi, delle loro ancestrali tradizioni comportava pedissequamente la difesa “religiosa” della Terra e dei suoi beni, sentimento “olistico” che con l’assimilazione sarebbe cessato consentendo alla nuova società, sorta con la colonizzazione, di appropriarsi e sfruttare le altrui terre e risorse.

V’è tuttavia un tratto speciale della sua posizione che rende ancor di più interessante la decostruzione del primatismo dei pellebianca, e ciò si sostanzia nell’appassionata difesa della vetustà delle locali tradizioni native e questo atteggiamento si concreta nel contrasto che egli oppose, nella sua attività di pubblicista, anche accademico ovviamente, alla consolidata idea del popolamento “recente” del Continente Tartaruga.

Deloria difese sempre il tramandamento condiviso che gli Indiani fossero aborigeni e in ciò fu in involontaria sintonia con le posizioni sul tema di René Guénon, tanto da poter ritenere che Deloria fosse quasi un “guénoniano a sua insaputa”. Il brano successivo colto dalla sua biografia presente su Wikipedia ne offre agevole dimostrazione:“Deloria ha raramente perso l'occasione di sostenere che le realtà dell'esperienza e della tradizione degli indiani d'America prima del contatto non possono essere riconosciute o comprese all'interno di qualsiasi quadro concettuale costruito sulle teorie della scienza moderna".      

Che dire, giunti alla fine? Si può solo constatare come in quegli anni ormai lontani (1969), accanto a una contestazione comunque tutta incentrata sui paradigmi fondanti di caratterizzazione endo-occidentale, si aprisse, del tutto radicalmente controcorrente, un varco - mai serratosi, ma semmai sempre implementato nelle dimensioni-, alla luce irraggiante che proviene  dall’esperienza insospettatamente metafisica dei nativi d’America.  

Hollywood (quasi) rinnega se stessa

"I film western, dove gli indiani vengono raffigurati come bestie, dove il vinto viene condannato al ruolo del mostro della favola, mentre il vincitore ha rubato l’abito da principe azzurro. Così il furto subito dai nativi diventa ancora più grottesco, la truffa viene mitizzata da Hollywood, condannando le generazioni future a vivere e soffrire nella menzogna: “Quando i bambini indiani guardano la televisione, e guardano i film, e quando vedono la loro razza raffigurata come è nei film, le loro menti si feriscono in modi che non possiamo immaginare”.

Se la saggistica ha dato un contributo importante alla messa in discussione, se non alla demolizione, del “mito della frontiera”, intesa come espansione d’un unico modello di civiltà, per giunta democraticamente connotato, l’altra fonte di ripensamento del dogma del destino manifesto e della civiltà che  “procede fatalmente verso ovest”, è stato il cinema.

Naturalmente queste piccole note non sono un esame critico della produzione hollywoodiana avente per tema il conflittuale rapporto tra pellebianca e pellerossa, per far questo, oltre all’esperienza di un critico cinematografico, ci vorrebbe un’ampia stesura, come parimenti sarebbe necessario uno psicologo “specializzato” sul tema, come ad esempio è  l’analista Martina Zilio, del Centro Studi Psicologia Immagine, che si occupa dei rapporti tra l’immagine filmica e i processi di formazione della persona.

Su questo concetto i pensieri corrono alle immagini di tanti film visti in sala parrocchiale da noi ragazzini il cui godimento, ahimè, era costituito dal momento in cui gli indiani, quali nocivi parassiti, erano sterminati a frotte, come si fa con l’insetticida, dalle infallibili pallottole dei revolver dei gloriosi soldati blu. 

Chi non è più giovane ricorda come ci hanno addestrato all’approvazione di ciò poppando avidamente alla mammella della menzogna.

Certamente sarebbe un gran bel lavoro rintracciare e ricomporre le linee guida di questa costruzione ideologica filmica, perché si mostrerebbe come si assembla uno stereotipo e poi come successivamente lo si demolisce e se ne costruisce magari un altro, che è l’esatto opposto del precedente (possibilmente identicamente fasullo), come a dire con Margaret A. Murray: il dio delle vecchia religione diviene il diavolo nella nuova.

La “vecchia” religione di Hollywood è fondata, com’è noto, sul mito immarcescibile della frontiera inteso non come confine invalicabile ma come limite da superare in progressione inarrestabile, dove, per conseguenza, tutto deve essere portato a sé, al proprio modello culturale ritenuto unico ammissibile, e laddove ciò non appaia possibile, si richiede che l’oppositore, il contrastatore, il disturbatore, ancorché magari inerme, debba essere eliminato.

Questo fu il credo propalato da Hollywood per molti decenni in relazione alle popolazioni native del Continente (o Isola) Tartaruga e queste pellicole hanno formato la coscienza di un numero incalcolabile di persone che hanno visto nell’Indiano e nel paesaggio in cui questi viveva un ostacolo alla civiltà che andava doverosamente rimosso.

Naturalmente delle voci critiche si sono levate anche in tempi in cui sostanzialmente l’umanità dei nativi era messa in discussione, una di queste è stata il prestigioso e prolificissimo Jonh Ford - il regista che più di ogni altro ha incarnato lo spirito della frontiera e quindi l’”eroismo” dei coloni che fecero grande l’America -, che, ormai assai malato, dedicò la sua terz’ultima fatica cinematografica, risalente al 1964, al Sentiero delle lacrime ovvero alle conseguenze della deportazione messa in atto dal, già citato, “famigerato” Indian Removal Act (lett. "legge per la rimozione degli indiani") risalente al 1830 e promulgato dal presidente Andrew Jackson per ragione di sicurezza nazionale (ricorda qualcosa?) per depredare gli indiani (ovvero le 5 tribù “civilizzate”: Cherokee, Crew, Choctaw, Chickasaw, Seminole), già sloggiati dalle loro sedi originali e comunque ambientatisi perfettamente nei territori loro assegnati, perché fossero sostituiti da orde di nuovi coloni affamati di terra. Tale deportazione avvenuta astutamente in pieno inverno con “disagi” facilmente comprensibili, costrinse diverse tribù ad allocarsi nelle sterili terre dalle cui zolle non ricavano sufficiente alimento per nutrirsi.

La pellicola di Jonh Ford s’intitola Il grande sentiero e narra, per così dire, di un tentativo di “De reditu”, ovvero si parla della migrazione spontanea, ma identicamente dolorosa, intrapresa dall’affamata tribù degli Cheyenne deportati, come anzidetto, in una zona improduttiva dell'Oklaoma senza aver ricevuto l’elemosina di quegli aiuti “umanitari” che scaturivano da una giuridica promessa, decide di tornare alle origini nelle verdi terre dello Yellowstone, da cui in origine provenivano e per questo compirono un percorso di 1.500 miglia con difficoltà facilmente comprensibili con i mezzi allora a disposizione.

La caratteristica della pellicola, che comunque fu un insuccesso sia di pubblico sia di critica, sta nel fatto che l’”inerme ribellione” degli Cheyenne è raccontata dal regista come legittima, e per questo la sceneggiatura mostra che coloro che avrebbero dovuto ostacolarla (in primis le truppe ivi inviate), si  mostrino invece comprensivi e condiscendenti con i “migranti”. Proprio a causa di questa, pressoché inedita, cornice di umana comprensione il film è stato definito da un critico: “un atto riparatore nei confronti degli indiani”       

1314 FIG4 AndrewJackson new echota treaty

Fig. 4

In questa immagine sì condensa tutta l’enorme sofferenza prodotta dalla pulizia etnica voluta dal presidente in effige nonostante la forte opposizione im ampi strati della Nazione alcuni dei quali favorevoli all’indipendenza indiana dal resto dell’America

Fonte: sitohttp://www.stateoftheunionhistory.com/2018/11/1829-andrew-jackson-indian-removal-act.html

Prescindendo da questa doverosa citazione, propedeutica al passaggio successivo, la nuova religione, di cui si diceva, s’instaura repentinamente pochi anni dopo, rovesciando così il consolidato rapporto d’opposizione tra pellebianca e pellerossa. 

Difatti nel corso degli anni ‘70 il film western fu calato in una dimensione nettamente diversa da quella tradizionale. Da espressione elegiaca degli eroismi commessi alla fede nel progresso tipica del XIX secolo, esso assunse   un’inedita coloritura di simpatia, anzi di difesa dei bistrattati nativi

Il ribaltamento, cui si accennava nella precedenti pagine parlando di “dio nella vecchia religione e di diavolo nella nuova”, trova l’esempio forse più calzante nella pellicola “Il piccolo grande uomo” (interpretato da Dustin Hoffman), ispirato al massacro di pellerossa lungo le sponde del fiume Washita. Questo è il primo film del periodo (anni ‘70), in cui si procede a una completa revisione dei ruoli immutabili dello stereotipo western, anzi non si tratta di una semplice revisione, ci si trova di fronte addirittura a un ribaltamento dal momento che, come il titolo lascia intendere, si tratta di un film tutto di paradossi e di contrari.

1314 FIG Massacro di Sand Creek

Fig. 5 Washita

Il massacro del Washita (chiamato anche battaglia del Washita) si svolse il 27 novembre 1868 quando il 7° Cavalleria del tenente colonnello Geoge Amstring Custer  attaccò l'accampamento dei Cheyenne meridionali di Pentola Nera lungo il fiume Washita (nei pressi dell'attuale Cheyenne) parte di un importante campo invernale indiano.

Fonte:https://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_del_Washita#/media/File:Seventh_Cavalry_Charging_Black_Kettle_s_Village_1868.jpg9

Qui “la storia americana” è vista con gli occhi di un indiano (che in realtà è un bianco) in cui i cavalleggeri degli Stati Uniti, tanto enfatizzati da John Ford in molteplici circostanze, sono definiti tout court “selvaggi”, mentre gli Indiani sono descritti come “un popolo degli uomini”. Nel complesso Piccolo grande uomo è un ingegnoso ribaltamento di tutte le vecchie mitopoiesi che dipingevano l’indiano (“talmudicamente”) più o meno quale un animale (quasi) parlante.

Tuttavia nonostante i suoi meriti non ci troviamo di fronte a un’autentica lettura del mondo culturale indiano, piuttosto si è di fronte a una presa di coscienza degli accadimenti che hanno portato alla sostituzione etnica.   

L’altra pellicola cardine di questa “rivoluzione culturale”, uscita nelle sale appena nella settimana antecedente il prima citato film di Arthur Penn, è stato Soldato Blu di Ralph Nelson. In essa si narra una delle vergogne più scabrose dei pellebianca, ovvero il gratuito massacro a Sound Crew del 1864, in cui si giustificò l'uccisione dei più piccoli con la motivazione che: i pidocchi nascono dalle uova di pidocchio. Sebbene al film sia stata contestata una certa eccessiva crudezza nella rappresentazione dei fatti, indubbia è la concretezza dell’esposizione: quello scontro che è stato fatto passare come una “battaglia” in realtà fu solo un nuovo massacro stavolta di di inermi cheyenne che avevano da subito alzato “bandiera bianca”. 

Così, quasi prodigiosamente, sempre in quell'anno avvenne la presentazione un’altra significativa pellicola dal titolo Un uomo chiamato cavallo, che stavolta non narra di eventi bellici, tra pellebianca e pellerossa, semmai tra soli pellerossa, ma apre uno spiraglio alla comprensione di un rito indiano tra i più cruenti, facendone conoscere le caratteristiche al “grande pubblico”. 

La vicenda si svolge tra i Lakota. Tra essi vive un pellebianca adottivo e questi deve provare il proprio "coraggio" per passare dalla condizione servile di cavallo da soma (da qui il titolo) a quella di “uomo”, solo una volta raggiunto questo status si potrà finalmente sposare con la donna nativa che ama.  Il rito – assai arcaico, stante l’archeologia che ne mostra le imperiture fattezze- cui deve partecipare e che ha fatto inorridire gli estranei che vi hanno assistito che lo considerano repulsivamente come una delle espressioni più insopportabilmente selvagge della stirpe, è noto con il nome Danza del Sole o Danza guardando il sole o altri equivalenti ed è assolutamente centrale nella cultura nativa.

Questa complessa "liturgia", summa della spiritualità etnica se si tiene anche conto degli atti rituali che si compiono durante le fasi preparatorie comprese quelle dedicate all’allestimento dei luoghi, non è precisamente codificato in nessuno dei numerosissimi gruppi etnici che la praticavano e la praticano tuttora, tuttavia, malgrado le varietà di modalità in cui ci si può imbattere, possiede un nocciolo irriducibile a ogni successiva diminuzione.

Il rito è essenzialmente fondato sul meccanismo risarcitorio tra uomo e cosmos (da qui lo spargimento di sangue), un poco richiamando in ciò il circuito delle Grazie della mitologia greca. Esso tra l’altro ha carattere fortemente identitario dal momento che rinsalda tutti i possibili vincoli che l’individuo ha con l’intera realtà, visibile ed invisibile, ed è faticosamente sopravvissuto a ogni repressione garantendo così la trasmissione generazionale dei suoi contenuti.

L’importanza che assume ai nostri occhi la pellicola all’epoca - seppur il tutto sia stato raccontato su coordinate espressive legate alla vicenda umana del personaggio che, dopo aver conquistato un ruolo di spicco, perde tutto quello che ha acquisito presso coloro che erano i sui carcerieri -, riposa sul fatto che la storia che si racconta ha fatto conoscere comunque l’essenza di una pratica fondante e vitale per il mantenimento della cultura sioux lakota. Inoltre, aver ambientato la vicenda in una cornice davvero “verosimile”, in cui i protagonisti nativi si esprimono esclusivamente nella loro lingua madre, senza quelle ridicole deformazioni grammaticali e sintattiche con cui di solito è rappresentato il parlato del nativo, rende più autentica la vicenda narrata.

Merita, infine, senz’altro un cenno la pellicola di Robert Aldrich del 1972 dal titolo Nessuna pietà per Ulzana, anch’essa contenutisticamente sviluppata secondo la ormai consolidatasi prospettiva revisionista, che ci narra, ancora una volta, del medesimo sopruso.

I fierissimi Apache, una volta ristretti nella riserva assegnata, che non offre risorse alimentari sufficienti per sostenersi, sono soggetti, per il solo meramente sussistere, all’elemosina governativa che non viene loro comunque erogata per i soliti brogli che sono dietro queste operazioni filantropiche, di ieri come di oggi.

Questi, giunti alla fine della sopportazione, come prevedibile si ribellano alla sottomissione in cui sono costretti guidati dal loro fiero capo Ulzana, da qui il dipanarsi della vicenda filmica. Al termine della vicenda il braccato Ulzana non sopravviverà alla caccia messa in atto contro la sua banda di ribelli, ma il suo avversario pellebianca, in ogni caso, non si mostrerà ostile per principio al gruppo dei rivoltosi Apache, piuttosto si rivelerà comprensivo delle loro ragioni.

Il compimento del rovesciamento apologetico cinematografico, iniziato nel 1970, si porterà a termine, stavolta, non con una pellicola ma all’atto conclusivo della cerimonia di consegna della statuetta dell’Oscar nel 1973, di cui uno, quello destinato al celebre Marlon Brando, non verrà ritirato.

Nella circostanza l’attore disdegnò il premio conferitogli e si fece rappresentare al non-ritiro della statuetta da una sua amica, forse nativa, la questione è controversa, l’attrice Marie Louise Cruz o Sacheen Littlefeather, altrimenti conosciuta come Piccola Piuma. Le motivazioni del gran rifiuto si possono leggere nella citazione in esergo all’inizio del paragrafo. Solo dopo mezzo secolo, proprio in prossimità della sua morte, Piccola Piuma riceverà le scuse degli organizzatori della cerimonia per l’accoglienza, non certo amichevole, che le era stata riservata in quella sede.

Oggi le motivazioni dei nativi americani, un tempo considerate pressoché “reazionarie” in quanto intrinsecamente “antiprogressiste”, per la loro concezione di spiritualità fortemente rapportata al mondo naturale, per citare le due colonne su cui si regge il pensiero nativo, sono divenute da tempo d’indubbia attualità.

Tutto ciò, forse, non sarebbe stato possibile se già dalla fine degli anni ‘40 non ci fosse stata la propulsione generata dalla visita di F. Schuon presso i Sioux Lakota e della prolungata ospitalità, condita di lectio magistralis, che Alce Nero riservò a Joseph Epes Btows. I derivati che nacquero in seguito a questi “abboccamenti” in loco, non certo meramente di natura esotica, semmai “esoterica”, generarono un cospicuo movimento d’opinione (non dimentichiamo che Epes Brown era rispettato insegnante universitario e in piena sintonia con il grande studioso svedese del mondo nativo Ake Hultkranz) che produsse un’integrale rivalutazione di quel pensiero che era stato presentato assai negativamente e non solo perché era estraneo alle nostre categorie occidentali.

In precedenza, in ottica nativa, era stato proprio Guénon a riposizionare le conclusioni dottrinali relative a termini, frutto della speculazione occidentale, quali animismo, politeismo, panteismo e monoteismo e “non-dualità” che quali gabbie speculative non hanno ragion d’essere quando sono applicate alle prassi di popoli così geograficamente lontani. Pertanto lo “stregone nativo animista”, così dipinto in innumerevoli resoconti, ha perso negli anni l’aura luciferina con cui le precedenti e non certo disinteressate osservazioni etnografiche lo dipingevano, per diventare sciamano o, alternativamente, medicine-men, le cui pratiche e i cui riti furono tenuti, forse primo tra diversi, in altissima considerazione dal Guénon, tanto da paragonarli ai pur presunti corrispettivi presenti nella - da lui apprezzatissima-, Tradizione vedica.

Al contempo, sempre tra i primi, Guénon contestò radicalmente il modello di popolamento del Continente Tartaruga e la sua contestazione nasceva dallo studio simbolico delle forme “geometriche” presenti in numerosi reperti e dalla conoscenza dei miti e dei riti indiani. Oggi l’archeologia si muove, ovviamente del tutto indipendentemente, nella stessa direzione da lui tracciata giungendosi a trovare reperti testimonianti l’occupazione umana dei luoghi che sarebbe constatata in epoche remotissime, a conferma della bontà e serietà delle memorie native (la qual cosa ci ricorda le scoperte del Foro romano fatte dall’archeologo Andrea Carandini che concordano pienamente con la tradizione letteraria).  

In definitiva, l’attivissimo cenacolo che si strinse intorno alle idee guénoniane di allora ha diffuso semi che hanno verosimilmente attecchito anche fuori del ristretto ambito dei “cultori” della “Tradizione Primordiale” e/o della filosofia perenne (le diamo per distinte senza ulteriori precisazioni) e hanno generato nuove visioni di “quel mondo” che, provvidenzialmente, è riuscito a non morire soffocato dall’abbraccio mortale con il Regno della quantità, nonostante si sia fatto di tutto ma veramente di tutto perché il “popolo delle merci” potesse giungere a questo suo ambito risultato.

Senza enfasi su può affermare che questo nostro parlare intorno al tema, costituisce già uno scopo in sé, senz’altro di peso specifico solo molecolare,   tuttavia è una stesura concepita in un’ottica finalizzata a mantenere l’attenzione su un “orizzonte dello spirito” che è riuscito a non farsi spegnere, nonostante ciò sia accaduto a molti altri fuochi sapienziali d’identico valore. 

La lezione che si impara, a giudizio di chi scrive, è la seguente: chi si sente straniero in una terra divenuta straniera e sperimenta la quotidiana esistenza  come ”il vivere in un mondo ostile”, sa nell’animo di essere un “indiano” e di conseguenza sa che un’altra vita è comunque possibile.

Bibliografia:

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AA.VV.:Oikosophia, dall'intelligenza del cuore all'ecofilosofia, Quaderni di studi indomediterranei. Mimesis, Sesto san Giovanni Milano, 2018

Alce Nero: La sacra pipa, i sette riti dei Sioux Oglala, Edizioni mediterranee, Roma, 2021

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Sandro Consolato: Ad Ovest con René Guénon, Ed Arya,  Genova. 2023

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Vine Delonia jr::  We Talk, You Listen (1970), ripubblicato Bison Book nel 2007

Vine Delonia jr: God Is Red: A Native View of Religion (1973), ripubblicato da Fulcrum Pub; Anniversary (1 settembre 2003)

Vine Delonia jr: The Indian Affair (1974) ripubblicato da‎ Friendship Press Inc.  2023

Archie Fire Lame Deer: Il dono del potere. Vita e insegnamenti di un uomo-medicina lakota, Il punto d’incontro, Vicenza, 2018

René Guénon: Il demiurgo, Adelphi, Milano, 2007

Hossein Nasr Seyed: Conoscenza Sacra, Mediterranee, Roma, 2021

Jonh G .Neihardt. Alce Nero parla, Adelphi, Milano, 1968

Heike Owusu: I simboli degli Indiani d'America, l'essenza della tradizione pellerossa, Edizioni il Punto d'incontro, Vicenza, 1999

Frithjof Schuon: Il Sole Piumato; Ed Mediterranee, Roma, 2000

Arthur Versius: Terra sacra, ed. Mediterranee, Roma, 2018

 

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