I matematici... pensano (di S. Maracchia)

 Matematici pensano

di Silvio Maracchia

Premessa di Claudio Lanzi

1284 31Luglio2023 MaracchiaQuesta volta il prof. Silvio Maracchia mi ha mandato una piacevole raccolta di pensieri in libertà… E’ bello scorrere le riflessioni di un vecchio amico quando sopratutto affrontano tematiche e dubbi simili ai tuoi per cui il titolo impertinente ce l’ho messo io. Quale pensatore, quale intellettuale e quale uomo comune non si è posto, almeno qualche volta, il problema delle cause e degli effetti di ciò che ci accade e della “magia” e non casualità che irrompe nella razionalità? Quante volte, nella ricerca della affidabilità degli esiti di una azione, di una deduzione, non ci siamo domandati quale fosse il modo per avere “certezze”. E quali sono le relazioni fra l’infinita serie di incontri con uomini, animali e cose con cui interagiamo in continuazione e la spaventosa quantità di eventi percepibili e impercepibili che ci sfiorano in continuazione senza destare la nostra attenzione. E infine la domanda che ci pervade in continuazione, quella relativa alla finitezza o alla infinità di un cosmo di cui siamo contemporaneamente parte ed essenza, osservati e osservatori, limite e infinitudine. Questi pensieri non propongono al lettore una ermeneutica filosofica, non vanno a turbare i sogni dei simbolisti ma si pongono con la levità di una persona che ha attraversato una lunga vita basata sulla logica, ma che ha un’anima profondamente poetica e, pur essendo un professore di matematica… non può farci niente. Grazie Silvio.

Immanentismo

La teoria immanentista di Spinoza ha un suo indubbio fascino: è Dio che ha creato l’Universo e quindi questa sostanza è Dio stesso poiché sua emanazione. Tutte le costruzioni che l’uomo pensa di poter fare, tutte le sue invenzioni passate, presenti e future, altro non sono che espressioni di quel panteismo creato e voluto da Dio, anzi Dio stesso[1].

Ma non è di questo panteismo che intendo parlare, troppo impegnativo filosoficamente, e impegnativo anche per il comportamento umano che esso presupporrebbe e richiederebbe; intendo invece parlare di quel panteismo falso eppure presente in molte nostre valutazioni se non proprio nel nostro comportamento.

A tutti è capitato di dare una implicita volontà alle cose inanimate che sembrano talvolta congiurare contro la nostra tranquillità, volontà, che ben inteso non esiste ma che è sempre presente nel nostro subcosciente: cade un oggetto? E noi gli diamo quasi la volontà di essere caduto (“sei voluto cadere e sei voluto cadere” diceva mio nonno quando qualcosa gli sfuggiva dalle mani !); sbagliamo la chiave da introdurre in una serratura? E pensiamo che quasi abbia congiurato contro di noi o della nostra fretta. Insomma a pensarci bene, rendiamo animate quasi tutte le cose inanimate che ci circondano: dal traffico che impedisce la nostra necessità di fare qualcosa di urgente alla rottura del laccio di una scarpa nel momento meno opportuno; al cadere di un oggetto che poi va a nascondersi nell’angolo meno accessibile ecc. ecc.

Sono, naturalmente stupidaggini a pensarci un poco, cui nessuno crede, però a pensarci continuiamo a vivere in un mondo animato pensando di essere sempre all’attenzione del mondo che ci circonda che invece è del tutto indifferente a noi e al nostro animismo.

C’è stato un tempo però che l’animismo era religione se si pensa alla civiltà greca raccontata da Omero per il quale la vita umana era permeata dalla continua presenza di dei piccoli e grandi ed ogni manifestazione umana veniva divisa tra la scelta umana e la determinazione divina ben più pesante.

Facciamo un solo esempio tra le centinaia e centinaia possibili: nel primo libro dell’Iliade Brise maltrattato da Agamennone si rivolge ad Apollo e questi per vendicare l’oltraggio al suo sacerdote si mette a fare strage di Achei; Achille spinge il re di Argo ad interrogare un indovino (Calcante) che gli ricorda l’oltraggio che Brise aveva dovuto subire. Agamennone si adira e si vendica su Achille di cui sospetta l’ingerenza e lo oltraggia gravemente. Achille vuole vendicarsi immediatamente ma viene fermato dall’intervento di Minerva inviata da Giunone. Achille si rivolge però alla divina madre Teti che perora la causa del figlio a Giove che promette di vendicare l’oltraggio promettendo di mettere in difficoltà l’esercito acheo (nel frattempo diverse divinità si adoperano per mutare fenomeni atmosferici) pur litigando con la moglie Giunone. Insomma, tutti gli avvenimenti umani, anche i più semplici come potrebbe vedersi in altri esempi, sono soggetti all’aiuto o al contrasto di divinità in lite talvolta anche tra loro. [2]

In altre parole, tutta la realtà era permeata dal mistero dell’intervento divino, richiesto o no. A noi è rimasta solo la credenza lucana della presenza dei cosiddetti “Monachicchi”, spiriti di bambini morti, che si divertono a compiere vari scherzi ai viventi e così altre presenze simili in altre regioni oppure quella “malignità delle cose” osservata da Massimo D’Azeglio.

Aritmetica

Un altro pensiero mi circola nella testa senza che io possa scacciarlo. Talvolta mi sembra profondo ma talaltra banale. Vale dunque la pena di farne cenno anche per esorcizzarlo, per dir così.

Da qualche tempo sto confrontandomi con un gioco on-line, Hearts è il suo nome, nel quale, in ogni mano, vengono assegnati 26 punti da distribuire tra quattro giocatori uno dei quali sono io stesso. Il gioco consiste, ma questo non è importante per quello che intendo dire, nel fare il minor numero possibile di punti e vince chi ha il punteggio più basso allorché uno dei giocatori supera i 99 punti. Una sorta di “Traversone” o, con altro nome, di “Tressette a perdere”.

Non è questo che mi ha colpito ma la circostanza, come dicevo, che in ogni mano vengono, a secondo delle giocate, distribuiti 26 punti[3]. Ebbene quando la mano finisce compare una tabellina nella quale vengono indicati sia la distribuzione dei 26 punti e sia la situazione globale sino a quel momento. Ora se nella mano io ho fatto, poniamo 10 punti, il giocatore A ne ha fatti 7 e B 3, allora non c’è dubbio che C, in quella mano, ne ha fatti 6. Certo è assolutamente banale che anche senza vedere il punteggio di C che appare sullo schermo, poter dedurre che 26 – (10 + 7 + 3) è uguale a 6. Ma è in quel “non c’è dubbio” che risiede tutta la sicurezza della matematica che abbiamo a nostra disposizione; della semplice aritmetica in questo caso. Ma quale altra manifestazione umana può fornire una sicurezza siffatta? Cosa avranno sentito gli antichi nostri progenitori quando piano piano hanno concepito un meccanismo, l’aritmetica in questo caso, che dava una sicurezza, una verità?

Alcuni ricercatori hanno trovato in Cecoslovacchia un osso di lupo, un femore, risalente a circa trentamila anni, in cui sono state intagliate due serie di numeri (30 e 25 rispettivamente) molto probabilmente per ricordare le numerosità di due insiemi di oggetti. Non si tratta di aver dato origine alla nascita del numero che subirà ben altra evoluzione avanzando faticosamente dall’uno al due al tre in vari secoli molto più vicini a noi (4000 anni a. C.?) ma comunque di una soluzione razionale per evitare dispersioni. Una prima ricerca di verità unita alla nascita del linguaggio che pure concorse notevolmente al suo sviluppo.

Ebbene, con la semplice aritmetica si raggiunse quella sicurezza che dovette meravigliare non poco ed entusiasmare i nostri progenitori: si aveva insomma qualche cosa di certo e di sicuro. Uno strumento magico che svincolava dalla passiva attesa di eventi non controllabili, dai capricci di divinità imprevedibili e capricciose. Ancora oggi è rimasto il retaggio di quella prima magia e spesso usiamo la locuzione “come due e due fanno quattro” oppure “è matematico” per indicare una cosa certa e indiscutibile

Se poniamo attenzione al mondo che ci circonda di nessuna cosa, materiale o no, abbiamo piena certezza neppure quella di morire, ad esempio, lanciandoci dalla cima di un palazzo. È accaduto, infatti, che nell’ultima guerra un aviatore sia precipitato da circa tremila metri senza paracadute e cadendo su un lato scosceso di un ghiacciaio e scivolando su esso con una favorevole angolazione, abbia via via rallentato la velocità di caduta bruciandosi soltanto un poco per l’attrito e rompendosi, se non ricordo male, solo una gamba. Certo prima o poi si muore, ma anche questa “certezza” è messa in dubbio da molte religioni che trasferiscono la vita in un’altra sfera.

Invece se i tre concorrenti del gioco di cui ho parlato sommano 20 con il loro punteggio, il quarto non può avere che soltanto 6.

La matematica, dunque, anche la più semplice, dà questa certezza di verità per cui non ci possiamo meravigliare che Pitagora, ad esempio, ma anche molti altri studiosi antichi e recenti, ne fecero la sostanza dell’esistenza dell’Universo, la sua verità che non può essere contraddetta o mutata da alcuna divinità come osservò ad esempio Galileo.

Ricorda Bertrand Russell che quando veniva assalito dal pessimismo e dallo scetticismo si risollevava pensando che comunque c’era la matematica a cui ancorarsi. Russell spostò poi la sua sicurezza alla logica anche perché la matematica aveva dato segni di relatività quale scienza non in grado di dimostrare la sua coerenza. Egli pensava però alla matematica con la presenza dell’infinito che porta con sé incertezze e le cosiddette “proposizioni indecidibili” ma se si fosse limitato alla matematica “finitista”, alla Hilbert per intenderci, escludendo l’infinito in qualsiasi modo esso

possa intendersi, avrebbe potuto trovare nella semplice aritmetica quella sicurezza di una volta.

Abitanti della terra

C’è un altro pensiero che mi gira spesso, almeno da un certo punto in poi, nella testa. Mi accade quando esco di casa specialmente quando mi allontano dalla mia abitazione.

Io abito in una grande città che avrà all’incirca tre milioni di abitanti, in una nazione che ne conta quasi sessanta e in un mondo che si aggira su sei miliardi di occupanti. Pertanto, quando penso a coloro che, in un modo o nell’altro conosco, concludo che conosco assai pochi miei contemporanei: trecento? Anzi, dato che ho fatto il professore per quasi cinquant’anni posso arrivare anche a mille, una cifra comunque irrisoria confrontandola appunto con il totale. Posso anche aggiungere quelli che abitano vicino a me e che magari incontro per la strada, nei negozi anche senza parlare con loro, ma quanto posso aggiungere alla somma indicata? Praticamente quasi nulla.

Ma dove vado a parare con queste ovvietà? Ebbene, è qui che interviene il pensiero di cui ho parlato sopra.

Mi accade spesso, ogni volta che esco, per la strada, nell’auto pubblico, ovunque insomma, di incontrare fuggevolmente gente che cammina per i fatti suoi, ha preso l’auto per andare da qualche parte ecc. ecc. Ebbene io penso che quel giovanotto che incrocio sulla via e che non ho mai visto prima, non lo vedrò mai più, quella vecchina che passa appoggiata ad un bastone, o quella giovane mamma che spinge una carrozzina scompariranno per sempre dalla mia vista; eppure ciascuno di quelli che in un modo o nell’altro incrocio sono un piccolo mondo, hanno avuto una loro vita e proseguono in essa, hanno avuto gioie, dolori, speranze, risultati conseguiti o rimasti incompleti. Hanno capito qualche cosa della vita ed hanno una loro idea del mondo.

Ed io non saprò mai nulla di quel piccolo mondo che mi passa accanto e che scompare per sempre. Pur essendo nello stesso pianeta, nella stessa città, ho una ricchezza (una ricchezza sì!) che mi passa accanto di cui non saprò mai nulla! Qualche volta parlo volutamente con qualche sconosciuto e vedo che spesso poter scambiare qualche parola fa piacere anche al mio interlocutore, ma sono poche frasi, superficiali, che nulla hanno a che vedere con la possibilità di indagare anche poco su quel mondo che mi sta accanto, un mondo da cui sono scaturiti quei proverbi che mostrano una saggezza e una profondità popolare. E mi rattristo: ho una ricchezza a portata di mano ma essa scompare per sempre.

È chiaro che mi devo accontentare di quelli che conosco ma questo, quando osservo la varietà delle esperienze e delle conclusioni raggiunte, mi rattrista ancora di più al pensiero di quanto è ricca l’umanità che mi circonda e che in ognuno di noi vi è anche solo una scintilla che andrebbe però conosciuta e apprezzata. Poiché ognuno di noi ha nel suo intimo almeno una pepita d’oro, sconosciuta magari a lui stesso, ma c’è.

Forse è per questo che talvolta mi diverto ad immaginare quale doveva essere stato l’aspetto di quella persona anziana che incrocio e dal suo viso, dal suo portamento indovinare quale poteva essere stato il suo lavoro, la sua vita. Oppure, ma questo è più aleatorio, mi immagino come dovrebbe diventare quel giovane tra trenta o quaranta anni.

Fantasie? Mi sembra talvolta di sì, ma qualche volta mi fanno pensare: incroci una persona e non la vedrai mai più.

L’Infinito

L’Infinito è una piccola parola di quattro sillabe ma racchiude enormi problemi di carattere esistenziale, umano e divino, naturale e razionale. I suoi parenti “sempre” e “mai” pur avendo stesse caratteristiche di assolutezza, sono meno incisive anche perché forse maggiormente usate nel parlare corrente ove non hanno quella corrispondenza letterale, quel mistero insuperabile.

Nel Catechismo della Chiesa Cattolica (213)[4]si legge, ad esempio che «Dio è la pienezza dell’Essere e di ogni perfezione, senza origine e senza fine». Non vado a ricercare oltre, mi basta quel “senza origine” come dire che Dio è sempre esistito, cosicché, parlando con i nostri canoni terrestri nei quali esiste il tempo, egli, Dio, ha una esistenza infinita e non solo nell’avvenire (“senza fine”) ma anche nel passato (“senza origine”), cioè, ripeto, è sempre esistito.

Ebbene, io mi perdo al pensiero che esista qualche cosa che è sempre stata, senza origine, senza un principio. Lasciamo stare tutte le altre perfezioni di Dio e soffermiamoci su questo “infinito”. Non possiamo dire come è nato, né come ha raggiunto il suo Essere. Dunque, la creazione dell’Universo (perché poi?) così smisuratamente grande, almeno per noi, segna, insieme al movimento, un “prima” e un “poi”, ha creato, per dir così, il tempo. Ma lui è sempre esistito e perché? Cosa vuol dire?

Devo aggiungere che ho manifestato le mie perplessità ad un amico sacerdote don M. F. il quale mi disse di non saper rispondere alle mie domande ma aggiunse che vi sarebbero state uguali o maggiori difficoltà pensare un Dio nato in un certo momento: come e perché?

D’altra parte lo stesso pensiero sull’origine della materia, del nostro universo cioè, e della vita, non ha risposta. Sono queste le eterne domande che tormentano gli uomini non appena hanno avuto, come scrive Aristotele, la possibilità di poter pensare al di là della dura lotta per l’esistenza.

Silvio Maracchia

 

[1] Non apriamo qui lo spinoso problema dell’esistenza del Demonio trattata in altra mia pubblicazione: Tra il bene e il male. Fantasia religiosa … o quasi, Settimo Sigillo, Roma, 2006.

[2] Ecco cosa scrive ad esempio Concetto Marchesi ( Voci di Antichi, Leonardo, Roma, 1946, cap. VIII “Rileggendo l’Iliade” pp. 189 sgg.): «L’Iliade si apre con una tragedia sulla terra e una farsa nel ciel:, e subito nel primo libro si palesa continuo l’intervento dei celesti nelle vicende terrene. Gli dei omerici operano e quasi esistono mediante le azioni degli uomini che essi proteggono o avversano».

[3] Per completezza ricordo che 23 dei 26 punti sono dati dalle 13 carte di cuori e gli altri 13 dalla sola dama di picche.

[4] Nell’ed. della Libreria Vaticana, 1992, p. 73.

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