Editoriale 041 La Gerarchia e la ricerca del Vero

Gerarchia, parola di facile indagine semiologica, ma di difficile comprensione filosofica.
Potremmo provare a ragionare partendo da hierarkhès (gerarca), colui che è àrkhò (capo) delle hieròs (funzioni sacre). A sua volta il capo, la testa, è come il princeps, colui che viene prima. Ne hanno parlato in molti e anche il sottoscritto, in diversi libri, ma, una volta definita una possibile origine fonetica e semantica, bisognerebbe cercar di comprendere come funzioni la gerarchia, quali siano gli scopi, e quali gli attributi: bisognerebbe offrire delle istruzioni per l’uso, visto che delle gerarchie si è fatto un uso assai difforme nell’arco della storia, a volte esaltandole e a volte demonizzandole divergendo fortemente sulla loro utilità e funzione. Su questo argomento si sono arrovellati i politici e i sociologi partendo dagli an-archici (cioè dai senza capo) a coloro che vorrebbero trasformare la gerarchia in una specie organigramma manageriale (vedi in seguito), dove gli attributi siano definiti statutariamente. Più le gerarchie sono complicate più sembrano necessarie griglie che ne definiscano limiti e confini, come in uno spartito musicale che, non sempre, riesce a produrre armonia fra democrazie, oligarchie, tecnocrazie, plutocrazie, (tutti sistemi che, in modo differenziato, usano un sistema gerarchico). Ne consegue che, proprio in ragione della supremazia di una forma gerarchica sull’altra e della credibilità o meno delle gerarchie stesse, si compongono e scompongono le strutture sociali, si creano e si sfasciano i partiti, si formano e distruggono le alleanze e, addirittura, si costruiscono e si sfasciano gli stati o gli imperi.
 
altSacralità e gerarchia
A questo punto vorrei riandare all’origine del termine "gerarca" che si riferisce esplicitamente a qualcuno che dovrebbe essere alla testa di qualcosa di sacroCapo è una parola seria che abbiamo sempre più laicizzato e fatto diventare discutibile, trasformandola in un capo con delega, in capo ad interim, in capo istituzionale senza poteri, in rappresentante delle istituzioni; insomma in un gestore, separando il concetto di "capo" dall’esercizio delle sue funzioni nella gerarchia di cui dovrebbe essere… a capo.
In realtà, in una società sacra, il capo è il rex, il princeps, il pontifex, il cunctator, il giudice, etc.: è il centro della funzione sacra e il suo ius non dovrebbe essere discutibile. Riceve infatti il suo potere da un'investitura sacra, da uno imprimatur (vedi testi citati in bibliografia), da una trasmissione esoterica, da un conferimento magistrale, da un riconoscimento plebiscitario per acclamazione, dalla vittoria laureata sugli oppositori: insomma, da qualsiasi cosa ma NON da un'elezione democratica come oggi intesa. Questo non vuol dire che il capo, così "sacralizzato" e quasi santificato, non possa fallire (la storia abbonda di capi, sacri e profani, che hanno fatto errori) ma anche tali distorsioni fanno parte del sistema gerarchico e vanno accettate per quello che sono. Infatti la funzione gerarchica, sacralmente definita, fa assumere a chi comanda la responsabilità totale di quello che fa. Invece, in un sistema in cui le responsabilità sono nebulose e differite nessuno paga mai per i suoi errori, nessuno dice mai "ho sbagliato, scusatemi se potete", nessuno si assume il peso grave e le conseguenze delle sue scelte. La vigliaccheria che contraddistingue la nostra società democratica e profana ha fatto sì che, maggiori sono le conseguenze connesse alle decisioni, minore è la responsabilità di colui che le prende (come nel caso dei giudici o dei medici o dei partiti o dei sindacati, che che hanno una "responsabilità diluita" all’interno del sistema che fa sparire sia i meriti che gli errori dei singoli attraverso un complesso sistema di deleghe).
 
Tipologie del sistema gerarchico
Il sistema gerarchico vero, sacro o profano che sia, può essere semplice o complesso. Nell’antichità tribale era quasi sempre semplicissimo; con l’accrescersi delle popolazioni, e della necessità di controllo su spazi molto vasti è necessariamente diventato più complesso, ma fino a pochi secoli or sono ha sempre avuto una natura semplice e definita: chi fa qualsiasi cosa ne risponde comunque al "capo". Inoltre il sistema semplice non consente mai la latitanza del capo o la delega.
Proprio in questi ultimi decenni, caratterizzati da una tecnologia che divora con ingordigia lo spazio e il tempo attraverso il web, il sistema gerarchico sembra che stia nuovamente e diabolicamente semplice, in quanto l’oligarchia di pochissimi e potentissimi tecno-burocrati della finanza governa subdolamente la società planetaria, elargendo surrogati di democrazia attraverso la "libera" possibilità di espressione (ma sulla diabolicità della "rete" rimandiamo ad altri articoli).
Abbiamo dunque visto che il sistema gerarchico semplice prevede un capo che accentra tutte le responsabilità e una serie di esecutori necessari allo svolgimento della "volontà" centrale. Graficamente tale sistema ha una forma "a pettine", è un sistema perfetto, che non differenzia i gradi e le funzioni. Tutti sono chiamati a fare tutto e rispondono solo al capo che definirà di volta in volta i compiti del momento. Ovviamente questo sistema, per funzionare, richiede un’enorme dinamicità del capo e un'assoluta obbedienza della struttura che, nel passato, era controllabile purché spazi e tempi non fossero troppo estesi, ma che oggi è un'utopia assurda, a causa della vischiosa rete del continuo e frenetico fare, che ha completamente sostituito l’essere.
Finito il capo, in un’utopica gerarchia del genere, finisce anche la struttura, salvo che il capo non nomini un erede (e anche in tal caso, non è detto che ciò consenta di perpetuare la qualità del sistema).
Un sistema gerarchico complesso, invece, divide le responsabilità in "livelli" e in qualifiche: è il classico sistema profanamente importato dall’impresa moderna, che ne ha fatto uno strumento d’efficientismo. Apparentemente funziona assai meglio del precedente, in quanto il "capo" ha più tempo per dedicarsi ai "massimi sistemi" e la struttura dovrebbe suddividere i compiti e le responsabilità di gestione secondo competenze (assai spesso potremmo dire secondo nepotismi, o raccomandazioni, o convenienze politiche, etc.) Per contro ne deriva che, più la rete delle responsabilità è complessa, più sono facili "imboscamenti" di singoli individui, o d'interi settori, che "sfuggono" alla gerarchia in quanto sommersi dalla ridondanza di funzioni in parallelo (è questo il classico aspetto di alcune mega-strutture sociali, dove restare in ombra diventa a volte uno sport redditizio per ricevere uno stipendio senza far nulla o, peggio dove si creano interi settori di imboscati politici, etc.).
In questo secondo tipo di struttura il capo può, ad esempio, avere un "consiglio di ministri". Il consiglio può avere dei dipartimenti specialistici; a loro volta dal consiglio possono scendere funzioni e responsabilità in una "struttura ad albero" (a fine articolo riparleremo dell’albero nella sua forma sacra) che, laicamente, si esplicita tramite diagrammi a blocchi.
Tale forma è indifferentemente applicabile all’amministratore delegato coi suoi manager, al Papa coi suoi vescovi, al generale coi colonnelli, e a qualsiasi "struttura" esoterica o exoterica, definibile per funzioni di responsabilità differite. Purtroppo oggi constatiamo come il principio "laico" sia infelicemente rifluito dal funzionamento delle strutture civili a quelle religiose o sacre, e come i significati delle funzioni, perdendo la loro sacralità, siano precipitati dalla gerarchia nella burocrazia, assorbendo l’elemento peggiore di tale termine ibrido: dal francese burocrazie che usa il bureau (ufficio pubblico molto gradito all’area giacobina) coniugato pretestuosamente al kratos (potere). L’insieme parla da sé e non richiede commenti.
 
La ricerca del Vero in un sistema gerarchico
Mi sono concesso la precedente incursione nel mondo dell'ottimizzazione dell'organizzazione aziendale (di cui ho fatto parte in gioventù) perché ci aiuta a comprendere come un principio sacrale possa essere usurpato e snaturato, mettendolo a servizio dell’utile, del profitto, dello "sfruttamento delle risorse" (che a volte può essere una buona cosa, altre volte può coprire le peggiori nefandezze).
Torniamo perciò alla struttura sacra che dovrebbe basarsi su principi di trasmissione ben diversi da quelli di una struttura profana. Senza entrare in cavilli, anche se condivisibili, di tipo "guénoniano", indichiamo per ora col termine struttura sacra un insieme gerarchico spirituale, collegato al sacrum, all’inviolabile, al perenne, e di conseguenza al Vero. Sono termini che una mente razionale può considerare contraddittori. Come fa un qualcosa di inviolabile (e perciò spesso anche d’invisibile ad occhi profani) ad essere vero?
Alcuni pensano che il Vero debba essere come una scatola: una volta aperta e controllati i contenuti, voilà” il Vero è pronto a essere consumato, oppure difeso o rubato. Non è così. Tutti gli autentici ricercatori del Vero affermano che tale espressione è simile a un pozzo senza fondo. Il Vero è l’Abisso nel quale sprofonda l’anima di qualsiasi ricercatore. Il Vero è l’incontro con l’incommensurabile, e pretendere che il medesimo si riduca a un commensurabile a misura della nostra mente relativa è veramente un atto di presunzione senza pari.
In questa ricerca del Vero esiste uno iato, un ponte invisibile e sottile nel quale ogni ricercatore, mitico o storico che sia, da Galvano a Galad, da Lancillotto a Dante, da Enea ad Apuleio, ha una terribile paura di avventurarsi. Da quel ponte si precipita sul serio. La selva selvaggia non è come una gita in campagna. Tanto è amara che poco più è morte dice il poeta. Ma si entra proprio da lì; non si entra dal Paradiso, e neanche dal Purgatorio. Si entra dall’Etterno Dolore, dalla parte della perduta Gente: dai terribili significati che hanno tali espressioni. Anche i grandi cercatori precristiani non hanno potuto evitare tale passaggio (Ulisse, Enea, etc.) e anche se tale viaggio viene raccontato in chiave mitica, il cammino simbolico è identico a quello dantesco.
Ora la sottovalutazione degli straordinari significati di tale passaggio (che gli alchimisti chiamano il nero più nero del nero e che specificano come non si esaurisca in un solo viaggio ma che possa ripetersi più volte nel corso dell’esistenza) rappresenta la caduta di ogni pretesa di salvezza, la fine di ogni ricerca nella palude della presunzione. Vuol dire saltare (nella fantasia, ovviamente, perché nel cuore ciò non è possibile) la Gerarchia del Sacro.
Ma, si domandano alcuni (e oggi lo fanno soprattutto i teologi) perché mai il Sacro dovrebbe essere Vero? Senza entrare in un argomento filosoficamente e religiosamente sconfinato, ci limitiamo a osservare come tutti coloro che hanno deciso di affrontare questo tema si sono avventurati su due strade distinte:
 - quella dimostrativa (di tipo aristotelico) nella quale le categorie e i sillogismi hanno sempre portato a soluzioni alternative fra loro, ben strutturate e parallelamente valide, nelle quali la dialettica ha provocato contrasti e diatribe infinite causate dalla relatività del pensiero e dalle indefinite soluzioni possibili a uno stesso problema;
- quella metafisica, il cui antesignano in Occidente è Platone, e in cui il contatto col sacro avviene proprio attraverso quel ponte stretto di cui non è possibile parlare (di cui forse è possibile cantare, direbbero gli orfici), perché il Vero, secondo i metafisici non è "traducibile" se non attraverso l’esperienza sovrarazionale che se ne fa.
Lo scetticismo e il relativismo scientista nei confronti del Sacro si riversano stranamente proprio contro ciò che, in chiave religiosa, veniva una volta considerato Vero e Assoluto (cioè non relativo). Infatti, il senso della religiosità e della trascendenza, con la sua tensione verso l’Assoluto, appoggiandosi a qualcosa che indubbiamente sfugge alle statistiche e alla speculazione scientifica, crea sospetti di "oscurantismo". Non soggiace, infatti alla dimostrabilità; perciò a volte provoca reazioni violente dei "razionalisti a oltranza", feroci quanto quelle di coloro che asseriscono il primato di una fede.
A nostro avviso entrambi (i razionalisti e i fideisti a oltranza) non si differenziano affatto né nei comportamenti né nella struttura para-filosofica portante il loro corpus dottrinale. Infatti l’elemento che determina la strenua difesa della dottrina è assai spesso la paura. Questo termine inferocisce tutti gli oltranzisti che, per principio, ovviamente non hanno paura. In realtà temono moltissimo di perdere le certezze, i supporti, il "credo relativo" al quale hanno attribuito la funzione della "casa", del rifugio della mente e dei sentimenti. Hanno paura di cambiare prospettiva, di guardare le ragioni dell’altro, di entrare nel profondo delle loro stesse motivazioni e di scoprirle fragili. Hanno, cioè, paura che il Vero Assoluto possa essere diverso dal Vero Relativo al quale si sono dottrinalmente ed emozionalmente abbarbicati.
L’apparato gerarchico della chiesa cattolica moderna, per esempio, invece di mantener stabile l’approccio metafisico e mistico alla trascendenza, utilizza sempre più spesso, nelle sue pastorali, il metodo della scienza relativista e statistica, "laicizzandosi" in maniera esasperata fino a creare burocrazie comportamentali e inquadrare la dottrina in un sistema a quiz. Dal che emerge che la ricerca del Vero può essere affannosamente intesa in modi diametralmente opposti. Quella sacrale, ermetica e mistica è una ricerca per coincidenza, per contemplazione, per visione, per esperienza spirituale, per estasi, o anche per esperienza materiale, ma soprattutto per ascesi, mai separata dalla conoscenza spirituale qualitativa. Quella "scientifica" è ormai prevalentemente statistica, logica, dimostrativa, per deduzione o per sperimentazione sensibile e strumentale quantitativa. Alcuni attribuiscono assoluta credibilità alla prima, altri alla seconda.
 
altLe piccole strutture tradizionali
In tale contesto diventa assai importante spostare ed estendere il concetto gerarchico alle poche residue strutture spiritualmente valide che ancora difendono o conservano una tradizione degna di questo nome. Fino a qual punto una salda e corretta gerarchia può contribuire alla ricerca del Vero, della liberazione e della salvezza?
Occorre dare per scontato che tale gerarchia sia attribuibile a un ordine spiritualmente legittimo e corretto: il che spesso vuol dire a un "capo" credibile. Senza questa premessa il resto ha poco senso ma, se tale collegamento è solido, soltanto attraverso un'efficace struttura gerarchica l’ordine può essere mantenuto con efficienza e rispetto per quanto accade in ogni manifestazione della natura. Non ci si riferisci qui soltanto alla gerarchia esterna (che pure è necessaria) ma alla gerarchia dei cuori. In una struttura sacra (piccola o grande che sia) il trasferimento dei principi dottrinali e gerarchici non deve avvenire attraverso uno schema laicamente burocratico, ma attraverso il riconoscimento, sia razionale che soprattutto sovrarazionale, della rete "mistica" che sovrintende la struttura. 
Compito del neofita, dell’iniziando o di colui che proviene dall’esterno è cercare di riconoscere interiormente, più rapidamente possibile, la gerarchia esteriore e di amarla, rispettarla e sostenerla.
Tale "ri-conoscenza" non è così semplice da realizzare, soprattutto perché il mondo delle "bufale iniziatiche", filosofiche e spirituali non è mai stato così esteso e potente come ai nostri giorni. Ma, una volta che tale rete di gerarchia metafisica abbia acceso qualche barlume di speranza nel cuore di chi cerca, vanno seguiti virtuosamente i principi utili all’approfondimento del viaggio appena iniziato.
Una struttura tradizionale e sacrale non può separare il perseguimento virtuoso dal perseguimento realizzativo. Questo vuol dire che la struttura non soltanto deve avere un’etica solida, ma che anche il principio sovrarazionale che determina le relazioni gerarchiche deve risalire alla radice delle Virtù, analogamente a quanto raccontano l’ineffabile pseudo Dionigi, il grande Filone d’Alessandria e lo stesso Dante.
Attenzione: la lettura di tale scala gerarchica è di tipo anagogico; se ci si impelaga nella pretesa di definire esclusivamente tramite leggi, riti, liturgie e "gradi" il buon andamento di una struttura spirituale, in breve, la stessa, si trasformerà in una torre di Babele o, ancor peggio, in una setta dominata dalla sete di "potere" e dall’arrivismo di alcuni; e questa cosa accomuna strutture grandi e piccole, nate con pretese spirituali ed ecumeniche e trasformatesi rapidamente in aspirazioni materiali ed economiche. Eros, Fanes ed Hermes sono i principi di una vera armonia gerarchica spirituale; in chiave cristiana, potremmo dire l’Amore, la Sapienza e lo Spirito.[1]
 
La gerarchia e il rispetto
In una struttura spirituale gerarchicamente corretta il rispetto per gli "anziani" è un elemento cardine. Non è detto che all’anzianità corrisponda necessariamente una gerarchia cardiaca altrettanto profonda, ma nell’anziano c’è un patrimonio irrinunciabile, che oggi dà quasi fastidio riconoscere: l’esperienza. Rispettare l’esperienza vuol dire rispettare il Dolore, la Fatica e l’Amore che chi ha esperienza ha investito nel suo cammino. Se vogliamo che in un futuro la nostra esperienza venga rispettata dobbiamo innanzitutto rispettare chi ne ha fatta più di noi.
Questo non vuol dire deferenza "fantozziana", ma ascolto, disponibilità e, soprattutto, amore e obbedienza. I collegi monastici, così come le confraternite dei mestieri, così come quelle guerriere, improntavano le loro regulae su tali principi.
Dal punto di vista gerarchico tale ragionamento si riferisce soprattutto ai rapporti col capo. Se abbiamo riconosciuto lo ius del capo, potremo e dovremo anche accettare le sue defaillances. Nel momento in cui non riconosciamo più il suo ius (o per indegnità del capo medesimo o per nostra ignoranza) lo abbandoneremo, con dignità e rispetto. Le fedeltà ad oltranza, quando non si capisce più a cosa si è fedeli, diventano "tribali"( nel senso asfittico del termine e non in quello di una sacra antropologia) e si sviluppano per difendere la paura di perdere l’idea (o i privilegi) acquisiti e non la Verità che temiamo di trovare
Tutto ciò potrebbe sembrare ovvio; in realtà non è così facile capirlo, proprio a causa delle prevenzioni che ognuno di noi si porta dietro e dello sfacelo animico nel quale ci dibattiamo.
L’anziano, in realtà, porta su di sé il "peso" del Vero, indipendentemente dal fatto che abbia raggiunto o meno una totale o parziale chiarezza della mente o la liberazione interiore.
Dicono i saggi che il peso della Verità sia terribile anche se meraviglioso, man mano che se ne prende coscienza. San Cristoforo, nell’attraversare le insidie del fiume dell’esistenza, prende coscienza del peso enorme della Verità e della Via che porta sulle spalle e che, nella leggenda, è rappresentata da Gesù "bambino" che si rivela pesante come un macigno e rischia di fare affogare il forzuto santo, a significare che è tutt'altro che facile sopportare la Verità su sé stessi, sulla Vita, sulla Via, sulla Morte, è molto più facile baloccarsi con una verità surrogata a nostra immagine e somiglianza, ancor meglio qualora ci venga somministrata ex cathedra.
Ma la bellezza, la gioia e la liberazione (come spiegano in via simbolica tanti miti, da quello di Er, a quello della Caverna platonica) derivano proprio dall’accettazione del peso della Verità: l’unico peso che rende equilibrata la bilancia della giustizia sublime (che gli egiziani rappresentavano così ieraticamente nella bellissima Maat alata, e che i cristiani hanno deposto nella spada e nella bilancia di Michele).
 
La scalata all’Albero della Verità
Può esistere una Verità che non sia Libertà? Nella chiave ieratica che stiamo cercando di proporre, ovviamente no. La Verità, secondo la metafisica neoplatonica seguita in questo ragionamento, si raggiunge entrando nella selva delle paure, nella selva delle presunzioni (o delle illusioni) e degli attaccamenti, nella selva dell’Ego e non soltanto nella selva delle nostre biblioteche. É proprio il noto ma misconosciuto "ego" infatti ad  avere davvero paura di morire, di perdere, di perdersi, di non ritrovare quel personaggio che ha sempre identificato con l’immagine (appunto im-ago) che vede allo specchio; è lui che non ha nessun interesse per la Verità; è lui che vuole certezze e abitudini ideali e che le vuol spremere tutte dai frutti dall’Albero della Conoscenza. L’albero della Vita e del Vero fa paura, come ogni axis mundi che si rispetti e, nelle leggende artiche, vi salgono solo gli sciamani.
Se volessimo spingerci oltre dovremmo parlare della Verità insita nell’Albero della Vita, cioè nel primo dei due alberi coesistenti nell'Eden biblico; anzi nella riunificazione di quest’albero con quello della Conoscenza. Coloro che hanno deciso di riposare all’ombra di quell’albero dove anche le saghe nordiche appendono le rune danzanti, dovranno tentarne la scalata, e su quell’albero si sale gerarchicamente seguendo un processo inverso rispetto alle "scalate" che la maggior parte di noi è abituato a immaginare. L’Albero di cui parliamo, e che interessa il cercatore dal cuore puro, ha il tronco e le radici in cielo e non nella terra. Per cui, noi, lillipuziani scalatori, invece di tendere a inseguire il moltiplicarsi del "fogliame" mentale e dottrinale, invece di disperderci "per li rami" della conoscenza umana, della forza razionale o della forza bruta (che a volte si somigliano), dobbiamo effettuare una rapida conversione operativa: dobbiamo perdere e spogliarci progressivamente degli abiti mentali acquisiti, cercare il tronco misterioso dell’albero purificando il cuore e le idee, andando alla ricerca della terra celeste, quella che i Crociati e i Musulmani chiamavano Terra Santa. Solo una volta che si sia percorso integralmente, inversamente e gerarchicamente tale tronco (come recitano sia la cabala che le dottrine ermetiche), si troveranno le vere radici che traggono linfa dallo spirito: solo allora inizierà un nuovo tipo di conoscenza.
Tutti oggi dichiarano egoicamente la guerra all’ego. Ma la potenza di tale mistero è realmente grande e proteiforme, e per ri-solverlo non basta pensare di essere nel cammino. Bisogna entrarci sul serio nel mezzo del cammino (proprio nel mezzo) dalla porta della Città dolente. Ciò significa che, nella coscienza illuminata, s’infrangono naturalmente le sbarre dell’ego e quindi colui che si realizza non ha raggiunto proprio nulla ma, finalmente si è fermato e si è fatto raggiungere dallo Spirito. La Verità spirituale è veloce, vola, e ha le stesse ali della Salvezza. Ma noi scappiamo terrorizzati quando minaccia di prenderci. La gerarchia, in tale contesto, educa alla pazienza e al rispetto delle sette virtù classiche, o quanto meno alla verifica della consistenza delle medesime nelle priorità di ognuno.
Tale gerarchia, magico ordinatore delle priorità secondo un criterio metafisico, orienta l’anima e la predispone all’ascolto.
Un sistema gerarchico privo di un ordinamento virtuoso e celeste, che preceda qualsiasi ordinamento umano, non ha senso. Le leggi stesse del sistema gerarchico devono avere un’ossatura virtuosa nella quale l’anima del praticante ri-conosca la trasformazione del cuore e non l’esaltazione stentorea di un principio più o meno esaltante o gratificante per la psiche.
Ecco perché la "discussione" o il "dibattito" in un sistema gerarchico come noi lo intendiamo (e com'era ad esempio quello pitagorico) erano ritenuti strumenti inutili e sterili.
Prima bisognava imparare ad ascoltare (scienza difficilissima), poi a comprendere (siamo già oltre l’apprendimento meramente razionale), poi a innamorarsi del sistema virtuoso che sottende la gerarchia (e questo riguarda i pochi che hanno com-preso), e infine si poteva esprimere e toccare l’idea embrionale. Tale idea bambina ha (per coloro che ne capiscono qualcosa) sette sorelle maggiori (le Virtù) tre madri (le Grazie); è nata da un colpo di luce che ha "ucciso" il vecchio padre, vittima del desiderio, del bisogno, del pregiudizio e del caos.
Ecco perché un sistema gerarchico deve partire dall’insegnamento generoso e consapevole, dalla schola philosophica dove, prima di apprendere le leggi si apprendano le virtù. Si apprendano attraverso la bellezza e l’umiltà e non attraverso lo sforzo e la superbia.
Lo sforzo e la superbia hanno sempre causato ernie fastidiose e non hanno mai favorito l’apertura della mente e del cuore. 
 
Claudio Lanzi

[1] Claudio LanziIntelletto d’Amore, Edizioni Simmetria 

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