Questo articolo nasce da due conferenze, tenute dallo scrivente tre anni or sono, nelle quali, come spesso ci accade, denunciavamo un abuso di termini “eroici” ormai inflazionati e stereotipati, ai quali si finisce per aderire più per inerzia mentale che per autentica convinzione. Anche se poco propensi ai dibattiti in ambienti dove la politicizzazione ha già fatto danni spingendo le coscienze verso il cosidetto “conformismo ideologico”, decidemmo di affrontare un tema insolito, offrendo una sorta di esegesi del rapporto fra il guerriero e la paura, riscoprendone l’importanza e il valore, proprio dove tale rapporto viene più disconosciuto. Aderendo alla richiesta di alcuni amici di Simmetria, abbiamo riordinato gli appunti su cui tenemmo quei seminari, ampliandoli con alcune analisi specifiche, prive di qualsiasi impronta politica o confessionale.
Il guerriero
Capire cos'è e cosa rappresenta un guerriero tradizionale oggi non è facile. O ci si riferisce a stereotipi semi-mitologici, che a loro volta si rifanno all’epica classica (omerica, babilonese, romana, giapponese etc.); o si preleva forzosamemte dai cicli nordici carolingi o provenzali; o ancora si recuperano i tanti eroi delle guerre passate e recenti, alcuni noti, altri sconosciuti per via delle strategiche dimenticanze dei vincitori di turno; o ci si rifà a quelli recentemente rivisitati da Tolkien e simili, che hanno l’indiscusso merito di aver realizzato una “summa” della mitostoria nord-europea, arricchendola però di elementi epici e fantastici che, pur nella loro correttezza simbolica, cadono nell’autocelebrazione; o, infine, in alternativa, ci si può rifugiare nella riproposizione fantascientifica, secondo gli schemi hollywoodiani ispirati a Propp e Campbell, dove l’essere umano dotato ormai di “superpoteri” sfida il mondo dei cattivi, quale nuovo Avatar con valenze ovviamente messianiche, sostituendo gli ormai sorpassati John Wayne che, per lo meno di superpoteri non facevano abuso.
Ovviamente la ricerca di uno stereotipo eroico affanna ormai anche l’Oriente, completamente appiattito sulla commercializzazione materialista delle emozioni facili e condivise, globalizzate dai vari social networks, esaltate dagli eroi “manga” imposti per la decerebralizzazione coordinata dell’infanzia, etc.. Viviamo davvero in una società “violentemente vigliacca”, “aggressivamente modaiola”, “arrogantemente pacifista”, etc., cioè in una società contraddittoria e schizofrenica, perché priva di alcun modello a cui ispirarsi e soprattutto naufragata nel relativismo, nell’assenza di credibilità in se stessa, nella completa laicizzazione e desacralizzazione dell’esistenza. Una società che si rifugia massivamente (soprattutto quella giovanile) nel compulsivo inganno dell’oceano delle virtualità ipnotiche dei piccoli schermi, dove vengono proiettate le istintualità sopite e soprattutto le idealità distorte. Ma questa è una vecchia lamentazione, ormai noiosa perfino in un breve accenno, ma non per questo meno drammatica.
In alcuni casi, ormai purtroppo anch’essi “virtualizzati”, il prototipo moderno d’eroe finisce per essere assimilato (in maniera sempre meno convinta) al solito Mishima o ai pochi esempi di testimonianza sprezzante dei ricatti della società affaristico-finanziaria che ha invaso la terra in questi ultimi cento anni. Ma oggi pochissimi giovani sanno ancora cosa sia stato Mishima o cosa siano stati realmente i Samurai, così come sanno ben poco dei principi della cavalleria europea. Su tali temi Simmetria ha pubblicato numerosi articoli e qualche libro a cui rimandiamo il lettore interessato.
Il guerriero tradizionale resta e resterà sempre un uomo “antico” non per età o per epoca d’appartenenza, o perché urla stentoreamente contro il miglioramento dei costumi o dei servizi offerti dalle possibilità tecniche di cui fa lui stesso ampio uso e abuso, ma perché si oppone metodicamente alla fruizione del mutevole, dell’approssimativo, del facile, del volgare, del consumistico, dell’arrogante, del caotico: insomma un guerriero, realmente ultimo dei Moicani, è un difensore di valori principiali, non inscrivibili negli “ismi” economici e politici dei potentati mondiali che rappresentano, appunto, ciò che è invece moderno, transitorio, fallace e mutevole. E un guerriero così oggi è difficile a trovarsi. Un esempio poco noto di coerenza cavalleresca, realmente unico nella sua profondità, era stato riproposto, molti anni or sono, dal capolavoro di Yasushi Inoue, rivisitato nel film del regista Kei Kumai, “Morte di un Maestro del tè”. Anche in tale romanzo e in tale film appare come non sia tanto il modo di combattere e lo scopo per cui si combatte che ha stravolto il significato di guerriero, quanto il modo di vivere. Per quanto ci sforziamo di adeguarci, un guerriero con l’IPad, il telefonino e facebook che lo insegue in ogni istante, costantemente a caccia di feste, di movida, di “vie del benessere”, etc., è, quanto meno, incongruo, se non ridicolo.
Ma la società ha un gran bisogno d'ideali forti, invincibili, pieni di principi apparentemente sani, soprattutto quando si rende conto che i “valori” si stanno volatilizzando: e, accorgendosi che in quest'orgia di deodoranti, ammorbidenti, energizzanti e multivitaminici questi ideali si stemperano in una “fuffa” generale, allora ha depitato il cinema a crearne di nuovi: ed ecco allora Walker Texas Ranger, Karate Kid, Rambo, Rocky, Terminator, e ora Avatar ed eroi sempre più “improbabili” e densi di effetti speciali. Tutti ai confini col fumetto, dotati di semplicistica, a volte grossolana, sapienza in pillole, ma ovviamente e democraticamente, facilmente comprensibili e condivisibili. Insomma, Ettore e Achille, Cesare e Ottaviano, gli indiani e i cowboy, Garibaldi e i Borboni; ma dalla storia al mito, alla fantascienza il passaggio è stato sempre più rapido; e oggi peschiamo eroismo dall’immaginario e dal mondo onirico; impegnati alternativamente nella simulazione dello scontro titanico fra male e bene. Ogni tanto le parti s'invertono, ma lo stereotipo resta quello, ed è sempre più falso. La società sente il crollo degli ideali forti (pensiamo alla politica) e trasferisce l’eroismo nella deficienza, a volte conclamata, dei campioni “sportivi” assai più di quanto non facessero le matrone romane, durante la decadenza dell’impero, nei confronti dei gladiatori. Esiste perfino un partito che, essendo nato per demolire una persona, si è inventato un nome tradizionale che richiama la patria e i non meglio identificati “valori”. Questo non significa che gli altri partiti siano migliori, ma evidenzia come il concetto di “valore” abbia sempre un forte appeal sociale, pur essendo stato totalmente stravolto nel suo significato.
Ora, per fare il guerriero (il guerriero è una classe nobile, quella degli kshatria dell’induismo, colui che difende i principi e dunque i valori archetipali) bisogna comprendere quali possano essere, anche oggi, le qualificazioni del medesimo. Lungi da noi riproporre Evola e Guénon. In pochissimi anni le loro catastrofiche e lucide visioni sono state sorpassate dal precipitare della società mondiale nella “sordità” collettiva. Ci limiteremo perciò a esaminare alcuni aspetti, poco indagati; aspetti semplici, filosoficamente abbordabili da tutti ma, a nostro avviso, sempre inquietanti.
Il coraggio e la paura
Di norma si pensa che la prima qualificazione del guerriero sia il coraggio. Già, ma cos'è il coraggio? L’azione (ago) del cuore. Già, ma quale azione e quale cuore?Come si distingue un’azione coraggiosa da una completamente incosciente o avventata? E un'azione stupida può essere considerata anche coraggiosa? Dobbiamo domandarci chi sia il coraggioso fra Ettore ed Achille, o se siano entrambi coraggiosi. Dobbiamo domandarci che tipo di coraggio abbiano Ulisse ed Enea. Sono tipologie eroiche assai diverse, ma a parte Achille, che merita un discorso speciale che ci riproponiamo di fare, tutti gli eroi hanno una straordinaria caratteristica comune: hanno paura. Una paura dai mille volti, dai mille motivi, dalle mille origini, contro cui a volte combattono, altre volte la convertono, altre volte la sublimano e altre ancora la abbracciano, ma non la disconoscono. E Plinio il Vecchio che si arrampica sul Vesuvio durante l’eruzione, che tipo di coraggio ha? E quelli che fanno esperimenti di biochimica sugli animali sottoponendoli a torture, hanno coraggio, sono temerari, sono stupidi o semplicemente sadici? E coloro che affrontano la morte, abbandonati da tutti, in un letto d’ospedale? Ha avuto coraggio il mio vecchio maestro d’arco e di spada Ideo Kobajashi, a fare seppuku, unico in Italia, per una questione d’onore? E quali sono le paure che hanno dovuto “vivere” i coraggiosi? E come si fa a vincere una paura? Attraverso uno sforzo? O facendo finta che la paura non ci sia? O attraverso la fede? O attraverso l’idealizzazione che sconfigge la paura? O attraverso cosa?
Imprevedibilità
Un eroe prevedibile, un eroe di cui conosciamo la forza, di cui ci aspettiamo l'eroismo e i comportamenti è uno stereotipo, un’icona noiosa, e perciò non è vero. Il coraggio, qualora esista, appartiene agli uomini veri così come la paura. Ma mentre la paura consente d'indagare nelle profondità di sé stessi, il coraggio è uno stato d’animo, una disposizione nobile che si acquisisce realmente, solo dopo la conoscenza della paura nei suoi recessi e nei suoi abissi. Per cui a volte il fanatismo può essere scambiato per coraggio; l’enfasi può essere scambiata per coraggio; il discorso stentoreo e aggressivo può essere scambiato per coraggio; e perfino la violenza singola o di massa può essere scambiata per coraggio. Difficilmente però l’uomo riconosce il coraggio nell’umiltà, nell’amore, nell’introspezione, nel silenzio e nella stabilità. In tutti questi casi il coraggio è una "variante" imprevedibile.
Cristo che porge l’altra guancia ha coraggio? In altre occasioni abbiamo cercato di mostrare come questo momento evangelico sia stato spesso frainteso, o proponendolo come esempio di mitezza, pacifismo, remissione e sopportazione, o, peggio come dimostrazione di pusillanimità e disposizione a un'umiliazione quasi fantozziana. Coloro che cadono in quest'errore dimenticano che il Cristo, come una furia, scaccia da solo e a scudisciate i mercanti dal tempio!
Nello stereotipo collettivo ci s’immagina che un’azione coraggiosa debba per forza "fare casino", produrre morti e feriti, gente che fugge, fiumi di sangue. Un’azione umile, che nessuno nota, sembra meno coraggiosa. Il coraggio di non pubblicizzare il proprio coraggio, di vivere la solitudine, l'anonimato, a volte l’emarginazione; il coraggio di amare e aiutare chi soffre, ma senza dirlo a nessuno. Queste sono modalità di coraggio meno appariscenti che pochi riconoscono come tali eppure sono le sole che "sostengono" la vita al di là della contingenza e dell'enfasi del momento.
Per cui, fra le imprevedibili virtù del guerriero possiamo e dobbiamo considerare anche le "mancanze" umane, le paure e le incertezze e forse solo chi conosce realmente le sue paure conosce se stesso (potremmo dire parafrasando l’oracolo di Delfi). Se non guardi la parte di te o dell’altro che non ti piace e che temi non hai nessuna possibilità di vincere su nulla, perché il tuo orco, come in una fiaba di Tolkien, scaverà sotto terra e ti mangerà attraverso la tua superbia, attraverso il tuo orgoglio e la tua presunzione, che sono cose assai diverse dal coraggio.
Allora, in conformità al detto alchemico che invita a scavare nella terra, iniziamo a vedere i cadaveri sepolti sotto la superficie delle apparenze e le cose che possono spaventare l’anima umana, anche quella dell’uomo che si considera forte. Ora, il modo con cui in genere si pensa di distruggere la paura è gettare il cuore al di là dell’ostacolo (che è una delle frasi più abusate nello sport e nella politica integralista di destra e di sinistra). Questo è il modo migliore per non capire nulla di ciò che si sta facendo e per trasformare la paura in un mostro assai peggiore (ad esempio in ira, invidia, avarizia, accidia, lussuria, gola, e nel peggiore di tutti i vizi: la superbia, cioè nei sette peccati capitali).
Perciò andiamo indietro, fino alle mura di Troia, a contemplare il duello mitico fra Achille ed Ettore, riproposto migliaia d’anni più tardi da Virgilio, fra Turno ed Enea. Un duello dove apparentemente vince l’odio per rispettare il Fato. In quel duello, con le sue valenze sacrali, sono celati valori iniziatici, misterici, sepolti dalla barbarie tecnologica, ma ancora viventi in ogni istante della nostra vita. Quel duello così magistralmente narrato da un vate, da un uomo che vedeva lontano, nel mondo degli Dei e delle Muse, è l’antesignano di tutte le ricerche spirituali, è lo specchio della guerra interiore, della guerra santa, che ogni uomo dovrebbe condurre con se stesso, che ogni Ettore che ci abita dovrebbe condurre contro il suo Achille. E forse alla fine l’eroe che morirà per primo non sarà il vero sconfitto.
La paura di morire
Tutti hanno paura di morire, non solo per istinto di conservazione, ma perché la morte è l’antesignana "occulta" d'ogni paura. L’esistenza della morte, pur essendo evidente in ogni istante, si apprende progressivamente, quasi con stupore. Per tutta la vita, nonostante ogni disquisizione filosofica, si tende sempre a dimenticare il celebre refrain, e cioè che la vita inizia con una condanna a morte come amava ripetere Oriana Fallaci. L’infanzia quasi non la conosce o la vede talmente lontana che sembra quasi non riguardarla. Eppure si annida ugualmente nell’insicurezza, nel timore del distacco. Si ha molta più confidenza nella paura del dolore, della perdita, dell’abbandono, del "lasciare". E col tempo il concetto del lasciare e quello del morire finiscono per sovrapporsi nell’animo umano. La morte separa da ogni cosa che abbiamo avuto, da ogni affetto, da ogni aspettativa e vince qualsiasi sforzo per evitarla. La consolazione della vita eterna ribadita dalle religioni del libro è accettata più come dogma che come autentico atto di ricerca e di meditazione.
Dunque non è lo sforzo di fede che allontana dalla morte. E se la nostra vita è fatta di aspettative e di affetti, separarsene con la morte diventa un problema. Morire è anche perdere il controllo su tutto, su ciò che abbiamo imparato ad accumulare, su ciò che possediamo, sulle nostre possibilità di offesa e di difesa; morire è perdere qualsiasi forma di potenza. Che Taulero e Suso, oppure gli stoici ci consolino con l’illusorietà o l'aleatorietà della condizione umana non aiuta chi teme di perdere tutto e soprattutto chi s'industria per accumulare. La morte è un punto di "discontinuità" nell’esistenza, così come la nascita. La vita sembra, appunto, racchiusa fra queste due parentesi. Quindi dovrebbe destare un particolare sapore il detto evangelico che invita a "gustare" la morte in vita, unico modo per superare il morire. Un modo che potremmo anche definire “iniziatico”.
Ne consegue che, a meno che l’uomo non abbia realizzato una profonda coscienza, o ancor meglio un contatto (appunto, iniziatico), con ciò che è "al di là" della vita ordinaria, sarà realmente difficile che possa accettare il morire come fatto "normale". Infatti, assai più della morte spaventa l’ignoto connesso al “passaggio” (come abbiamo accennato sia in Maleducazione Spirituale che ne L'Anima Errante). Il bardo, il cosiddetto apparecchio alla morte, è un punto fisso di ogni tradizione, corredato da testi e liturgie che se ne occupano a beneficio sia di chi "parte" che di chi resta. Si può non temere la morte o perché si ha una confidenza sufficiente nel post mortem o perché si è stanchi del vivere. Ma la paura di morire, cioè dello spazio-tempo che porta alla morte, ce l’hanno tutti. L’aggressione, il mostrare i muscoli, l'alzare la voce, l'armarsi, etc. sono tutti segni di una terribile paura. Il vero guerriero non ha armi, non aggredisce, non urla, non si mostra, non vuole apparire, ma è umile nella sua forza ed è coscientemente pronto a morire.
La paura dell’ignoto
Esistono tanti ignoti, e l’ignoto più grande siamo noi stessi per noi stessi. Possiamo collegarla alla paura precedente, perché l’ignoto è l’uscita dalla consuetudine che offre sicurezza. L’ignoto è la scomparsa dei riferimenti abituali. Un bambino che nasce urla proprio per essere piombato nell’ignoto e nella perdita di ogni precedente sicurezza, e si aggrappa alle cose che danno conforto, come il seno e il calore della madre.
Ecco: affrontare l’ignoto è il viaggio senza stelle per orientarsi, è la partenza di Ulisse verso le colonne d’Ercole; è l'avere il coraggio di ri-nascere ogni volta; è un atto realmente difficile. Per questo molti trasformano il loro “ignoto”, le loro piccole presunte ri-nascite in atti notissimi, cioè sbarcano in un apparentemente nuovo assetto di vita portandosi però dietro tutti gli stereotipi e i pregiudizi cui sono abituati; e quindi non riescono a cogliere i “regali” (ma anche le paure vere) che l’ignoto può offrire.
Un caso classico, che ci riguarda da vicino, è quello di coloro che affrontano un’esperienza che credono (o sperano che sia) ascetica e spirituale, ma non abbandonano neanche per un attimo la presa sulle piccole certezze mentali acquisite, "imparate" (cioè si portano dietro tutti i pregiudizi su chi sono i "buoni" e chi i "cattivi", in base a cosa è coerente con le loro abitudini e pregiudizi mentali e cosa non lo è). Costoro, anche se dovessero partire per un viaggio nell’iperspazio, non affronterebbero mai il vero ignoto e non potrebbero mai averne alcuna esperienza, né metafisica, né fisica, in quanto le pantofole del pregiudizio condizionerebbero ogni contatto con la nuova realtà. Faranno uno splendido viaggio virtuale, guardando sé stessi nella televisione della propria presunzione, ma resteranno sempre confinati in casa.
Affronta l’ignoto con coraggio solo chi, pieno di paura, è riuscito ad abbandonare realmente le sue certezze riconoscendo la sua ignoranza.
La paura di perdere potere sulle cose o sulle persone
Questa paura è identica a quella della morte. Vivere comporta l’amletica accettazione dell’illusorio, dell’oscillazione fra sogno e veglia di un’esperienza indeterminata, affannosamente assaporata a volte nel timore della propria fallacità e fragilità, altre volte nell'inebriante presunzione di potenza. Speriamo, e a volte crediamo, che la vita ci appartenga integralmente, anche senza aver fatto nulla per comprenderne il senso, alcuni direbbero per meritarsela. Ma poi ci accorgiamo che basta un soffio per togliercela e anche per toglierci le certezze emotive e fisiche a cui ci aggrappiamo.
Questa precarietà è egoicamente sconcertante perché si scontra con la pretesa d’eterno che vive in ogni anima. La pretesa d’eterno urta violentemente contro la realtà del transitorio, del mutevole, del deperibile, che caratterizza persone, cose ed eventi. E questa probabilità di perdita, che domina ogni istante della vita, spaventa terribilmente e porta a volte l’uomo a mascherare il suo terrore sviluppando prevaricazione, ingordigia, prepotenza e assoggettamento di persone o cose. Cioè enfatizzando e anabolizzando proprio tutto ciò che è transitorio, credendo che ingigantendolo acquisti una qualche "forma" d’eternità o stabilità.
La paura della deperibilità di tutto ciò che è materiale incrementa anche l’istinto della guerra, della "conquista" o anche della "difesa" rafforzando la sicurezza o la pretesa d’onnipotenza. In tale "sindrome" alligna anche la paura di non controllare il mondo o sé stessi (come si accennava ne Gli animali e l’Anima).
Avere il coraggio di lasciare o di essere lasciati, avere il coraggio di perdere, vuol dire aver conosciuto a fondo l’illusorietà del potere umano. E questa, a mio avviso, è una piccola ma significativa vittoria sulla paura.
La paura della solitudine
Sostengono molte filosofie (da Aristotele a Comte) che l’uomo è un animale sociale, cioè che ha il naturale bisogno di scaldarsi con l’empatia del clan; che negli amici senta non solo un’affinità ma anche una difesa; che la solitudine, la mancanza di confronto col simile, l’assenza di contatto fisico e psichico con chi può condividere paure e gioie e assisterlo nel dolore o nella difficoltà, sia uno stato inaccettabile e che, anche se la socialità comporta costrizioni, limitazioni e confini, è sempre preferibile alla solitudine e all’emarginazione. Nella solitudine l’immaginario singolo e collettivo sviluppa mostri, nemici interiori o esteriori e crea il problema di come proteggersi. La paura della solitudine sviluppa un’idiosincrasia verso il silenzio che, sotto un certo aspetto, è un riflesso della solitudine.
Sul concetto di solitudine, di sol- sole- etc. dovremmo sviluppare riflessioni assai complesse che non trovano posto in queste poche righe, ma bisogna soffermarsi almeno sul fatto che alcuni uomini"scelgono" la solitudine come meta, come mezzo e come stile di vita.
Un eremita, un anacoreta che si chiude in una grotta fra le montagne affronta tutte le solitudini possibili, tutte le paure possibili; rinuncia a ogni forma sociale e affronta il vuoto e il silenzio. Com'è possibile ciò e perché tale scelta è ormai diventata rarissima?
In realtà non è proprio così. La società cittadina, uniforme, laica, materialista, frettolosa e desacralizzata in cui viviamo ci emargina tutti e ci ghettizza nelle nostre assurde scatole di cemento e maschera tali eremitaggi forzati riempiendoli di rumori, di internet, di amicizie virtuali, di telefoni ed sms. Difficilmente qualcuno si accorge che questa compulsività comunicativa nasconde un’angoscia individuale che denuncia la reale e disperata solitudine dell’uomo moderno e modaiolo.
Dunque il monaco solitario nel fondo della grotta, il piccolo Giona nel ventre della balena, ha forse trovato una compagnia che oggi l’uomo ordinario non può più trovar: il monaco non ha paura di star solo perché ha trovato se stesso o, quanto meno, ha bisogno di tanto silenzio per cercarlo.
La paura fisica
Questa dipende molto dall’abitudine. Una società abituata alle invasioni e alla morte come quella antica, aveva una bassa paura fisica. Era abituata al dolore. Una società comoda come la nostra, esorcizza la paura fisica e la relega tra gli eventi improbabili; confina lo scontro fisico nella "barbarie" delle guerre lontane da noi, confina il dolore fisico e la sofferenza negli ospedali. Contemporaneamente, relega la cura del fisico nelle palestre (dobbiamo apparire tutti "giovani") e ha sommerso le nostre vite di medicine d’ogni tipo, atte a compensare ogni defaillance, ogni debacle della carne. La spinta a essere sempre "in forma" ha fortemente incrementato la preoccupazione per il "deterioramento" del fisico. Infatti la paura d’invecchiare e di vedere decrescere le proprie forze è diventata quasi paranoide. Il senso d’eterno dell’anima si è spostato, in una società materialista, sul prolungamento dell’efficienza, sulla conservazione della bellezza secondo canoni giovanilistici. Questa paura fa fiorire l’industria farmaceutica e quindi viene promossa industrialmente secondo precisi criteri di marketing: è un business colossale.
La paura degli "altri"
Gli "altri" sono quelli che crediamo diversi da noi. Gli altri mettono paura quando sono diversi. Più che paura si chiama diffidenza. Prima di conoscersi siamo tutti "altri". Ma col termine altro identifichiamo anche il diverso pensiero filosofico, religioso, politico, ideologico etc. insomma un pensiero che conosciamo "meno" di quello nel quale ci siamo avvolti. Questo non è razzismo (parola idiota) ma semplicemente non confidenza nelle proprie e nelle altrui ragioni. L’altro in fondo rientra nell’ignoto per cui a questa categoria possiamo applicare anche la paura dell’ignoto.
La paura delle idee degli "altri"
Idem come sopra. Le idee preconcette sono una meraviglia. Ci siamo abituati. Cambiarle è una tragedia; magari ci sforziamo per un po’, per far piacere a qualcuno; magari proviamo a spingere qualche passo in un terreno psichico mentale e forse spirituale che non conosciamo, ma poi fuggiamo spaventati dall'alterità, dal dover rinunciare a territori conosciuti. E se, per caso, "gli altri" avessero ragione? Ascoltare gli altri mettendosi dalla loro parte è una virtù straordinaria, sublime. Non c’entra con la tolleranza, ma con l’intelletto puro, con la voglia di comprendere e di vedere le proprie stesse posizioni da luoghi dell’anima diversi da quelli usuali. Gli altri spaventano finché non scopriamo che sono come noi. Forse a volte vediamo negli altri quello che in realtà temiamo in noi stessi.
La paura del dubbio
Una frase fatta, uno slogan, un inno hanno molto spesso riunito sotto un vessillo migliaia di persone che, pur non avendo ben chiaro a cosa appartengono, partecipano inconsciamente della vuotezza dello slogan stesso. Ad esempio: perché uno ha fede politica mentre un altro ha una fede opposta, ed entrambi difendono, con la massima sincerità, la loro posizione? Perché si litiga e si arriva fino alla morte per non lasciar spazio al dubbio? Il dubbio è un nemico mortale della coerenza e dell’appartenenza. Ma è anche un principio basilare per mettere in discussione sé stessi e per indagare al di là del pregiudizio; è ovvio che la messa in crisi della propria fede spaventa. Ergo meglio tapparsi vigliaccamente le orecchie e rifiutare ciò che fa vacillare le certezze acquisite, che rendono comoda la nostra militanza in qualsiasi idealismo. Una "variante" di tale paura è la paura della verità, che può essere o la paura di scoprire la verità su sé stessi o la paura di scoprire la verità sugli altri: insomma la paura di scoprire una verità diversa da quella ideale che ci siamo costruiti. Occorre un grande coraggio a vivere il dubbio fino alle sue estreme conseguenze e l'estrema conseguenza del dubbio può essere il nichilismo o la conquista del Vero.
La paura di essere giudicati
Tutti i cercatori di "mi piace" sui social networks temono il giudizio, e più il loro fans club cresce. più si sentono "giudicati" con rassicurante benevolenza. Ma a volte perfino essere aggrediti è un riscontro positivo, perché assicura visibilità, la certezza di essere notati dal mondo. Soprattutto oggi che, per mostrare al mondo di esserci e forse per esserne noi stessi convinti, abbiamo bisogno che qualcuno ce lo ricordi telematicamente. Da qui scatta la gara delle falsità, la ricerca di approvazioni facili e la gestione delle disapprovazioni in maniera strategica, per mostrare una forza e un coraggio che in realtà non si hanno affatto.
Su tale paura s’innesta il bisogno d’apparire che cela il terrore di non essere notati. Tale terrore denuncia la necessità di conferma della propria individualità egoica. Più l’ego si sente in pericolo, più cerca approvazione, più cerca di esibirsi per ricavarne un riconoscimento. La paura della mancanza di tale riconoscimento può stimolare la superbia e l’arroganza, con le quali si nascondono l’incertezza e la mancanza di centralità. Moltissimi sono stati i ricercatori "spirituali" distrutti dal "bisogno d’approvazione" o di visibilità e realmente terrorizzati dall’idea di restar soli, senza folle plaudenti. Non importa se l’applauso arriva da seguaci decerebrati. L’importante è che esista un consenso. Ecco: oggi questa sta diventando una delle "paure" più contagiose, proprio perché il sistema della "rete" consente con grande velocità la creazione di platee demenziali. E pochi hanno il coraggio di staccarsene.
La paura di aver paura
Mai mostrare le proprie paure! Cade il mito, cade il personaggio indistruttibile che abbiamo creato con tanta fatica. Perciò piuttosto che ammettere sinceramente le nostre paure fingiamo di non averne, oppure le temiamo al punto di trasmutarle (magnifica alchimia!) in disagi psichici o fisici, in insonnie, ansie e depressioni, Ma il punto di partenza è sempre la paura di affrontare l’incertezza, il vuoto e il buio che animano in concetto stesso di "paura". Questo porta ad "evitare" come la peste le idee, le persone, le letture e gli incontri che possano farci scoprire di aver paura. Ovviamente ci è facile mostrare coraggio su degli aspetti che ci sono istituzionalmente familiari. Ma così come il grande pugile a volte sviene all’idea di un'iniezione, così ognuno ha il suo "tallone d’Achille". Mai mostrarsi deboli. Questa società ti schiaccia se lo fai vedere. E questo fa la fortuna sia degli psicologi, che delle palestre. Una psiche e un fisico anabolizzati accrescono ciò che resta della fiducia in sé stessi.
La paura di esser liberi (o di non esser liberi)
E dove vai se sei libero? Puoi scegliere, e smettere d’esser scelto. Tutti dicono di cercare la libertà ma se per caso ne dovessimo ottenere la decima parte di quella che dicono di volere, restano paralizzati dalla paura. Pensate a cosa significa scegliere veramente tutto, scegliere di nuovo ogni secondo, scegliere anche di fronte a ciò che pensiamo di conoscere, scegliere rimettendosi in gioco ogni istante. In tale paura trova spazio il concetto di impegno, di responsabilità: impegnarsi in qualcosa comporta una fede in ciò che ci fa assumere l’impegno oppure, al contrario, una costrizione che definisce tempi e spazi del nostro agire, del nostro "fare" ed essere nel mondo. Temere l’impegno può equivalere a sentire la costrizione o la limitazione della scelta. In realtà è assai difficile comprendere se la libertà sia un obiettivo realmente realizzabile, in quanto ogni azione, anche minima, "costringe" ad assumere un impegno che, anche se iniziato spontaneamente e volontariamente, confina la possibilità di svolgere o essere "altro".
L’opposto di tale situazione è il precipitare in qualche forma di passività (ovviamente non di tipo zen) in cui tutto accade senza che ci sia una partecipazione e una motivazione nello svolgersi delle cose. Ne può derivare un horror vacui, un'angoscia di fronte alla necessità di dover escludere qualche possibilità dalla propria esistenza, temendo di esserne confinati e, per paura di "sbagliare" si finisce per non scegliere mai. Ma in questo caso la questione è complessa in quanto l’uomo trova a volte la gioia proprio scegliendo di confinare la sua libertà (ad esempio sposandosi, oppure lasciando un luogo, o una persona). La scelta quindi, non necessariamente rende liberi. Infatti non si può scegliere tutto contemporaneamente, a meno di essere Dio.
La paura dell’infinito e la paura di amare
Accorpiamo nello stesso paragrafo queste due paure in quanto sono intimamente connesse. Potremmo dire anche che sono collegate anche alla paura di morire, perché, come cantano i poeti, amare (realmente e totalmente) è un po’ morire. È un tuffo nell’ignoto, un naufragio nell’infinito; è un vero passaggio oltre i confini dell’ego.
Invece, un desiderio egoico, che pretende un corrispettivo, sviluppa la passione, o peggio la possessione: questo non è amore, come abbiamo cercato di spiegare in Intelletto d’Amore. Appunto intelletto: in quanto il cuore dell’amante deve dilatarsi sapientemente e spontaneamente, per nulla chiedere ma per tutto offrire, come una fonte perenne zampillante di ebbrezza, bellezza e tremante nella paura che dona l’ardire ai puri di cuore.
Sì, è facile parlarne; ma il terrore d’amare in questo modo, che forse è l’unico modo che merita l’appellativo d’Amore, così totalizzante è realmente grande.
Amore è rinuncia felice, è dedizione senza condizioni: è arrendersi con la gioia di aver conquistato il centro di sé stessi. Ne parla ineffabilmente Ficino e, in maniera magistrale, ne parlano i sufi e i Fedeli d’Amore. Li abbiamo richiamati in tante ricerche, in tanti testi di Simmetria e anche miei personali.
La moderna disumanità attuale ha drasticamente compromesso queste possibilità, inaridendo i cuori e soprattutto incrementando la "trattativa d’amore". Cioè non si ama mai senza condizioni, ma sempre con ampi margini di riserva. La "commercializzazione" è entrata abbondantemente anche nell’amore, soprattutto da quando il sessismo imperante ha ridotto gli incontri nell’alveo ristretto dello scambio di effusioni in grado di dare piacere. E l’Amore non è soltanto piacere ma molto, molto di più. E perciò la donna ha smesso d’essere Vera virginitas e l’uomo d’essere Vera virilitas. Ma queste sono espressioni ormai lontane dal modo ordinario e banale con cui s’intrecciano le superficialissime relazioni fra uomini e donne, e parlarne mi sembra ormai talmente incongruo che dubito possa risultare comprensibile a generazioni cresciute con le Barbie e con le Veline come modello di femminilità.
Il superamento della Paura
Ora come si sconfiggono tutte queste paure? Si potrebbe pensare: prima agisco, combatto, sopravvivo e poi lo scoprirò. Oppure si può dire: cercherò disperatamente di indagarle, con l’analisi, la meditazione, lo studio, la preghiera, e solo dopo agirò. Oppure si può ammettere di non saper proprio come fare. Quest’ultimo è un atto di coraggiosa umiltà. I presocratici, i platonici, i pitagorici, e poi anche tutti i veri guerrieri dello spirito, hanno insegnato che alla base del percorso per scoprire e sconfiggere la paura sta l’umiltà. Non c’è la spocchia, non ce la superbia, non c’è lo sforzo, non c’è l’ira, non c’è l’accidia. E qui casca l’asino. Perché il vanaglorioso coprirà la paura con infiniti veli, in modo da non riconoscerla mai come tale. L’umile l'affronterà nella consapevolezza della sua povertà. E questo forse lo porterà a trionfare sul terrore. Ma per intraprendere la perigliosa navigazione che porta alla scoperta dell’isola dell’umiltà sono richiesti un enorme coraggio, un ottimo nocchiero, una buona barca e una rotta sicura. E qui il serpente si mangia la coda. Buon viaggio.
Claudio Lanzi