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“Religious Studies” e “religious awakening”. F. Schuon e la sapienza nativo-americana - (di M. Toti)


“Che cos’è la vita? Lo sfavillare di una lucciola nella notte. Il respiro sbuffante di un bisonte nell’inverno. La breve ombra che scorre sopra l’erba e si perde dentro il sole”.
Piede di Corvo

“Non è come nasci, ma come muori, che rivela a quale popolo appartieni”.
Alce Nero


La funzione che F. Schuon (1907-1998) assunse, insieme ad alcuni suoi sodali nell’arco di oltre cinquanta anni, in relazione alla preservazione, al recupero, alla diffusione ed alla “resurrezione” delle vestigia della sapienza degli Indiani d’America (in specie del ramo Oglala della nazione dei Teton Dakota, appartenenti ai Sioux, e dei Crow-Shoshone) non può essere certamente sottovalutata. Un tale ruolo ha avuto due espressioni distinte ma intersecantesi: al di là del coinvolgimento personale, anche pratico, su di una base accademica si è infatti innestata una più sotterranea operazione di ordine spirituale, risultando questa tanto più significativa se si pensa che, dopo che, dal 1934, il governo statunitense aveva permesso la celebrazione delle cerimonie e dei riti indiani, la gran parte delle tradizioni ancestrali nativo-americane era sul punto di cadere irrimediabilmente nell’oblio.

1269 Fig. 1È proprio verso la metà degli anni ’40 – decade particolarmente difficile per la nazione indiana -- che si situa l’opera di J.E. Brown (1920-2000), che fu assistente della massima autorità nel campo degli studi sugli Indiani d’America, A. Hultkrantz, e dal 1970 al 1972 docente presso la “University of Indiana” (Bloomington), e quindi, dal 1972 al 1989, presso la “University of Montana” (Missoula). Probabilmente incoraggiato dalla “convergenza” con R. Guénon in merito ad una approfondita indagine sullo “sciamanesimo” quale “erede” della “tradizione primordiale”, nel 1946 Schuon incoraggiò Brown a mettersi in contatto con Alce Nero (Hehaka Sapa; 1863-1950), medicine man (pejuta wikasa) dei Sioux Oglala deceduto nella riserva di Pine Ridge, South Dakota, già oggetto dell’autobiografia, curata da J.G. Neihardt, “Black Elk Speaks. Being The Life Story of a Holy Man of the Oglala Sioux as Told to J. Neihardt”, pubblicata nel 1932 (la prima traduzione italiana risale al 1968), “venerato come uno dei più grandi santi che siano mai nati”. Si trattava, nel caso di Schuon e Brown, di una operazione pressoché pioneristica -- visto che l’interesse occidentale per lo “sciamanesimo” indiano era a quel tempo pressoché inesistente --, che si concretò nella pubblicazione, nel 1953, dell’importante testo “The Sacred Pipe: Black Elk’s Account of the Seven Sacred Rites of the Oglala Sioux” (la prima traduzione italiana del libro si ebbe nel 1970), tradotta in francese nello stesso anno dal medesimo Schuon (Les rites secrets des Indiens Sioux. Textes recueillis et annotés par Joseph Epes Brown). Quest’opera, frutto dell’attento “lavoro sul campo” e della trascrizione delle parole di Alce Nero, che Brown effettuò negli inverni del ’47 e del ’48 per circa otto mesi, svelava, per la prima volta, i sette riti dei Sioux Oglala connessi alla “Sacra Pipa” – che, secondo il mito autoctono, era stata consegnata ai progenitori dalla Donna-Bisonte Bianca (Pte San Wi), che sarebbe riapparsa alla fine dei tempi: di lì, la storia della “Sacra Pipa” era stata tramandata in una catena ininterrotta sino a Testa d’Alce (Hehaka Pa), “custode della Sacra Pipa” che l’aveva a sua volta trasmessa a tre uomini, dei quali l’unico ad essere vivo al tempo in cui operò Brown era proprio Alce Nero --, attraverso cui si “mandano le voci” all’”Essere Supremo”, unendosi a tutti i popoli, a tutto l’universo e a Wakan-Tanka (“Grande Spirito”, letteralmente “Grande Misterioso”); un tale “gridare i misteri dai tetti” fu dovuto sia alla coscienza di Alce Nero, ormai anziano, che una tale ritualità era in serio pericolo, sia al suo riconoscimento della serietà, della profondità e quindi dell’importanza dell’opera di Brown e della “santità” di Schuon. Alce Nero legò strettamente quella che considerava un’autentica missione alla pubblicazione ed alla diffusione del libro in questione: e, provvidenzialmente, in quel periodo, dopo innumerevoli e terribili travagli, la spiritualità dei Lakota riemerse in maniera tanto imprevedibile quanto significativa.

Nello stesso anno della pubblicazione del lavoro di Brown, molto importante fu l’incontro, a Parigi, tra Schuon e T. Yellowtail (1903-1993), originario del Montana, altra significativa figura della tradizione nativo-americana del ‘900, medicine man ed egli stesso “sacerdote” officiante la “Danza del Sole” (Wiwanyag Wachipi). In un successivo incontro, che suggellò quasi ritualmente la loro amicizia e che si tenne nel 1954 presso l’abitazione di Schuon a Losanna, questi restituì a Yellowtail la borsa contenente, separatamente, cannello e fornello della “Sacra Pipa”, che a sua volta Alce Nero aveva donato a Brown nel corso delle ricerche di quest’ultimo. Inoltre, la frequentazione con J. e E. One Feather, incontrati a Bruxelles nel 1958, costituì il tramite del primo soggiorno degli Schuon (Frithjof e la moglie Catherine) negli USA, che ebbe luogo nell’estate del 1959, quando Schuon fu adottato a Pine Ridge col nome di “Aquila Coraggiosa” [Wanbli Ohitika] (mentre più tardi, durante la medesima estate, in Wyoming, gli fu dato dai Sioux il nome di “Stella Luminosa” [Wicahpi Wiyakpa]), cui fece seguito quello del 1963, con i fidi W. e B. Perry. In entrambi i casi, Schuon poté assistere con gli Yellowtail alla “Danza del Sole” dei Crow-Shoshone, su cui scrisse poi memorabili e appassionate pagine; molto significativo, da un punto di vista “esistenziale”, risulta quanto proprio in questo periodo riportò Schuon: “fu solo allora che la mia anima guarì pienamente dalle ferite della mia gioventù”.

Nel settembre del 1980, contro il parere dell’altro “amico spirituale” T. Burckhardt, gli Schuon emigrarono negli USA, stabilendosi nei pressi di Bloomington (ove ha sede, come già detto, l’università presso cui insegnava Brown). In una lettera a L. Shaya del settembre 1980, Schuon scrisse, in relazione al nuovo incontro con gli Yellowtail in USA, che ebbe luogo pochi giorni dopo il suo arrivo negli Stati Uniti (e che si ripeterà periodicamente fino alla morte di Yellowtail nel 1993): “è stato un incontro, per il tramite del mondo indiano, con la Religio perennis, e ciò proprio all’inizio del mio soggiorno in questo continente”. Ad ulteriore sigillo della loro amicizia, nel 1987 Yellowtail adottò Schuon nella sua famiglia e nella tribù Crow, definendolo in modo commovente “mio fratello”.

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L’opera che compendia gli scritti di Schuon sulla spiritualità degli Indiani d’America è “The Feathered Sun: Plains Indians in Art and Philosophy”, del 1990 (la prima edizione italiana è stata pubblicata nel 2000). Tuttavia, altri aspetti, in certo modo più “profondi”, dell’interesse che Schuon serbava per la civiltà in questione praticamente da sempre rimangono oggetto di studio e di approfondimento, in particolare in relazione a fonti non scritte, o ancora non pubblicate o poco note, o iconografiche e poetiche. Non è ovviamente estraneo al testo del 1990 l’apprezzamento (oltre che il coinvolgimento) estetico che Schuon ebbe per i nativi americani, già intuibile dal titolo originale: è lo stesso Yellowtail, nella sua introduzione al libro, ad elogiare i dipinti di Schuon ispirati all’iconografia nativo-americana quali veicoli dello “spirito indiano” dei “tempi antichi”.

L’”affinità elettiva” che Schuon mostrò nei confronti degli Indiani d’America risale alla sua gioventù, ed è connessa a esperienze familiari; ancor più radicalmente, forse, essa si basava su quella che lo stesso metafisico elvetico descrisse come una corrispondenza nell’ordine del “carattere” col “tipo” indiano (coraggio, dignità, generosità, devozione). Pure, la “semplicità” della religione dei nativi americani, il cui minimo comun denominatore era identificato da Schuon nel simbolismo delle direzioni dello spazio (“quaternità” come “manifestazione” del “Grande Spirito”, e della sua “onnipresenza” sulla terra), nell’uso della “Sacra Pipa” e soprattutto nella nozione di “Essere supremo”, dovette attrarre non poco il suo interesse; è inoltre particolarmente significativo come Wakan-Tanka, “la realtà celata dietro tutte le cose”, sia in ultima analisi identificato da Schuon con il “Sé più profondo, proprio di ciascuna creatura”. Le più importanti “manifestazioni” del “Grande Spirito” sono l’Ovest, il Nord, l’Est, il Sud, il Cielo e la Terra, cui sono associate forme quali il Sole, l’Aquila, il Bufalo, la Roccia, la Stella mattutina. Questi ultimi sono al tempo stesso fenomeni fisici, principi che operano nell’intero universo e, soprattutto, nell’anima umana: “in ogni anima vi è un Ovest, un Nord, un Est, un Sud, un Cielo, una Terra, un Sole, un’Aquila, un Bufalo, una Roccia e così via”; simultaneamente, essi sono attributi del “Grande Spirito”. Si conferma così una stretta relazione tra “Dio”, la natura e l’uomo presente nella religione nativo-americana: relazione che, in qualche modo, la teologia cristiano-occidentale tende a “sfumare” (o a condannare come “panteismo”). Degna di nota, dal punto di vista più propriamente “contemplativo”, è anche la pratica dell’invocazione di un attributo del “Grande Spirito”, da operarsi nel cuore: nelle sue espressioni universalmente attestate, una tale invocazione è considerata da Schuon “la forma di vita spirituale più alta e completa”.

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Fondamentalmente, per lo Schuon maturo, il “primordialismo” della religione indiana, aliena da tecnicismi teologici e legata ad una sorta di “culto della natura vergine”, oltre che alla dimensione dell’oralità obliata in Occidente, è connesso al (e espresso nel) suo “inclusivismo”, che il metafisico svizzero poté integrare nella sua Weltanschauung “esoterica”, fondata sulla nozione di “unità trascendente delle religioni”, oltre che, problematicamente ed in un periodo relativamente tardo, nella pratica dell’Islam, non a caso considerato da Schuon la religione “superiore” più esplicitamente “perennialista” (insieme all’Induismo, prima forma tradizionale del presente ciclo, laddove l’Islam ne è l’ultima, il “sigillo” per l’appunto). Da un tale punto di vista, il rapporto tra le “conversioni” al Cristianesimo degli Indiani d’America – facilitate anche da una “identificazione” dell’indiano con le sofferenze di Cristo -- e l’”inclusivismo” indiano è ben tematizzato da Brown, che mette in luce il carattere “polisintetico” della nozione di conversione presso i nativi, non coincidente con l’intendimento occidentale del termine, mutuato dal Cristianesimo (in particolare occidentale): “Il fenomeno storico in oggetto non coincide dunque con una conversione intesa nelle modalità esclusivistiche proprie dei sostenitori del Cristianesimo, ma piuttosto con una continuazione della inclinazione antica e tradizionale del popolo verso quanto si può definire una adesione non esclusivistica e cumulativa”. A conferma di ciò, è noto come lo stesso Alce Nero divenne cattolico nel 1904 (ricevendo, oltre al nome “Nicholas”, il battesimo dal padre gesuita J. Lindebner), pur non abbandonando mai le proprie tradizioni e i propri riti, ma contribuendo in maniera determinante a “rivivificarli” ed “integrandone” le credenze, in una visione esplicitamente “universalistica”, alla dottrina della Chiesa cattolica: nelle parole di J. Trosper, “Alce Nero metteva la religione indiana tradizionale al primo posto; il Cristianesimo lo aiutò ad avvicinarsi al Creatore”.

Da un punto di vista più strettamente “operativo”, una significativa distinzione guénoniana – quella tra “sintesi” e “sincretismo” -- fu “trasposta” da Schuon nell’ordine “cerimoniale” per motivare quelle “sintesi sovraformali” che si sarebbero manifestate, nella loro forma più esplicita, proprio a Bloomington, e che sarebbero state giustificate sia dall’atteggiamento degli indiani appena ricordato, sia dalla speculazione schuoniana. Ciò si lega alla problematica affermazione di Schuon secondo cui “la Sophia Perennis […] è […] l’unica religione”, oltre all’idea che la religione nativo-americana, in primis per questo suo inclusivismo comunque ben distinto dai sincretismi New Age, esprima la “Sophia Perennis”, in certo senso nel modo più diretto. La concezione schuoniana di religione come “discernimento” tra ciò che è assolutamente reale e ciò che è “illusorio”, essenzialmente mutuata dalla dottrina indù relativa all’Âtman ed alla Mâyâ e da una interpretazione “esoterica” del primo membro della shahâda islamica e della nozione buddhista di “impermanenza” (pali anicca; sanscrito anitya), inoltre, trova una perfetta espressione in queste parole di Alce Nero: “Colui che è ben preparato [alla morte] è colui che sa di essere niente a paragone di Wakan-Tanka, che è tutto. Allora egli conosce quel mondo che è reale”. Le “sintesi” di cui sopra, nella prospettiva schuoniana, risultano infine giustificabili teoreticamente: oltre alla analogia tra il rapporto tra il Padre e il Figlio nel Cristianesimo, espresso in contesto indiano, simbolicamente e senza una particolare elaborazione “teologica”, da quello tra il Sole e l’Aquila, ben integrato nel “Sole piumato” (posto ritualmente sulle pelli di bisonte a mo’ di mantello; il Bisonte simboleggia la “Madre Terra”, rappresentando “la totalità di tutte le forme manifeste”), costituito da cerchi concentrici formati da piume d’aquila stilizzate, sussiste una profonda affinità tra il simbolismo della “Danza del Sole”, solenne rituale annuale a carattere sacrificale, eseguita in particolare dagli indiani delle praterie per quattro giorni, in estate -- il cui “prolungamento” è costituito dai riti della “Sacra Pipa”, officiati ad ogni luna piena in commemorazione della stessa “Danza del Sole” --, e quello della Croce: “Il simbolo proprio di questa metafisica, come ci è stato detto, è la croce inscritta nel cerchio: la croce terrestre – con le sue assi Nord-Sud e Est-Ovest -- ed il cerchio celeste. Alle sue estremità la croce orizzontale tocca il cielo; anche il suo centro tocca il cielo, mediante l’asse Terra-Zenith, che è proprio quanto rappresenta l’Albero della Danza del Sole”. L’albero, dunque, come è ben noto nella tradizione cristiana, equivale alla Croce, propriamente alla sua asse verticale, la “via rossa” che collega la terra al cielo, il Sud della “vita” al Nord della “purezza”.

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Nel giugno 2008, a Berkeley con una borsa Fulbright, ricevetti in dono da H. Smith (1919-2016) un breve manoscritto, che riepilogava, in forma di sintetica bozza, le sue esperienze con i nativi americani. Come si è avuto modo di vedere, Smith, decano dei religious studies negli USA e “perennialista” sui generis, ha contribuito, insieme a Brown e Schuon, alla diffusione della sapienza nativo-americana negli USA: il suo lavoro, ad ogni modo, è stato più orientato in senso “divulgativo”. Come è noto, questa generale rivalutazione ha coinvolto anche il cinema: oltre che espressione di un recupero culturale e spirituale, essa ha forse implicato una parziale “resa dei conti” con la propria coscienza – probabilmente, almeno in buona misura, autoassolutoria -- da parte della società statunitense, che a sua volta ha comunque agito in profondità sulla immagine degli indiani medesimi; non è tuttavia verosimile che tutto ciò sia da ascrivere ad una profonda riconsiderazione dei fondamenti della “civiltà” statunitense e delle sue tendenze “globalizzanti”. Ad ogni modo, è interessante notare come due tra i popoli che più hanno sofferto il “liberalismo” a stelle e strisce, giapponesi e indiani d’America -- polverizzati da due bombe atomiche i primi, vittime di uno dei pochi genocidi (ed etnocidi) praticamente riusciti i secondi --, condividano una visione del mondo che si esprime, tra l’altro, in un’etica fondata sul senso “guerriero” dell’onore ed in una estetica sublime, strutturalmente connessa alla dimensione più propriamente spirituale, “geometrizzante” anche laddove essa è “iconica”.

Ciò considerato, la distruzione sistematica e radicale del modo di vita nativo-americano – promanante da una ben precisa “metafisica” –, oltre che la sua riutilizzazione a fini “umanitari” e lucrosi (si pensi alle strumentalizzazioni politiche talvolta operate da prelati neomodernisti, oppure alle derive anarchico-esistenzialiste à la de André, ovvero alle innumerevoli, imperanti banalizzazioni ecologiste e/o sincretistiche), dovrebbe far riflettere quanti ancor oggi, ad esempio da posizioni “cattolico-tradizionali” o “conservatrici”, pur asserendo a parole la loro contrarietà al “pensiero unico”, si sono impunemente arruolati nelle truppe a difesa della immaginifica e fascinosa (ma non tradizionale, e comunque non compatibile col cattolicesimo) ”American way of life”.

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