Pasolini: Da Oreste a Pilade. Chi era Pilade e la sua tragedia, una chiave di lettura della Realtà.
Abbiamo visto, nell’anniversario per i cento anni dalla nascita di Pasolini, ognuno e in ogni dove tirare l’intellettuale per la giacca, e non solo certi politici o sociologici a mo di vanto, ma da tutte le parti, per la poesia i poeti, per il cinema i registi, per i romanzi gli scrittori, per il teatro, i documentari, il giornalismo, le canzoni, la sua morte. Per la parte rivoluzionaria i rivoluzionari, per la parte tradizionale i tradizionalisti, per l’omosessualità gli LGTB e così via quasi ad infinitum. La nostra mente, divisiva al massimo, spera che poi unendo tutto si arrivi ad una sintesi e si comprenda chi era Pasolini e chi fosse poi Pilade.
Per molti personaggi tale approccio analitico può funzionare, per Pasolini e pochi altri grandi intellettuali no. Non capiremmo mai come un uomo che mentre scavava intorno alle radici dell’occidente, nel teatro e nel mito dell’antica Grecia o scriveva sul Corriere della Sera o rimproverava i giovani sessantottini, allo stesso tempo partecipava alla prima canzone della psicadelia rock italiana o era direttore dell’odiato/amato Lotta Continua o giocasse a pallone. Se da un lato era un anticlericale, tendenzialmente ateo, ipercritico verso la Chiesa, dall’altro riscopriva le radici popolari del nostro cristianesimo e, soprattutto, dalla sua poesia e da alcuni suoi film, trasmetteva una profonda spiritualità, odiato ed amato dalla Chiesa stessa.[1]
Addirittura c’è stato chi lo ha definito un pre ecologista, per le sue radici contadine, che poi sono le radici culturali, in gran parte rimosse, della stragrande maggioranza degli italiani, e per il suo modo di osservare i cambiamenti del Paese e della realtà che ci circonda (mutazione antropologica). Se siamo capaci a non ridurre il pensiero ecologico alla mera moda dello sviluppo sostenibile, possiamo provare a leggere l’ecosistema Pasolini, con tutte le sue contraddizioni e variabili. Un ecosistema è complesso per sua natura; se lo dividiamo, frammentiamo ed analizziamo con una logica lineare ci complichiamo la vita e non lo comprendiamo nella sua interezza, se invece lo leggiamo proprio attraverso le varie interazioni, sovrapposizioni, ossimori, allegorie, simboli e quant’altro mantenendone un’unità, ecco che pian piano ci appare nel suo senso reale.
Anche per Pasolini, come per altri filosofi ed intellettuali, uno dei problemi fondamentali della società moderna è la scomparsa di Dioniso, cioè della sacralità più primitiva (naturale e sincera, poi rivestita da religioni strutturalmente razionali e spesso legate al potere e quindi alla menzogna), che seppur spesso irrompe nelle tragedie greche, già nel mondo ellenico viene sempre più frenata da un Dioniso-Orfeo, o proprio da Apollo, o da una pletora di dei, infatti già lo stesso Giasone (sempre nella Medea) di Pasolini è inteso come un uomo moderno (secondo alcuni critici, già ai tempi di Euripide, l’ultimo grande della tragedia greca, Dioniso aveva perso la sua centralità). Senza dimenticare la bellezza apollinea, Pasolini però ci invita a ricercare dentro ognuno di noi ed in special modo nella comunità, nel nostro modo di stare insieme, cercare di conoscere, quelle pulsioni primarie, selvagge, talvolta pericolose, quando non addirittura distruttive del primo Dioniso, una pulsione, in termini tradizionali, diremmo maschile, per la vita, eros nella sua pulsione primigena, Freud direbbe libido, Jung: parte fondamentale dell’inconscio collettivo, pulsione sì, ma naturalmente sacra, che se ben gestita dalla nostra parte, sempre in termini tradizionali, femminile, con la pazienza, la sapienza, l’accoglienza, porta all’intuizione, all’arte, alla creatività, all’amore. Il modernismo degli ultimi secoli avendo eletto a nuovo dio la razionalità, non fugge solo al Potere temporale della Chiesa, ma rimuove anche e soprattutto Dioniso, che però continua ad esistere, volenti o nolenti, ed esplode così nel potere con la forza, sia nei rapporti personali (la psicoanalisi è una scienza relativamente moderna e come diceva M. Foucault una scienza medica nuova nasce nel momento che si scorge e si condensa un nuovo problema, una nuova patologia), che sociali, per finire alle guerre altamente distruttive, che proprio l’occidente ha prodotto nel Novecento.
Come non pensare a Simon Weil, che comprende il potere distruttivo e autodistruttivo nel rapporto tra forza e potere. Ma ciò ha anche prodotto neo capitalismo tecnologico e consumismo, essi sono figli di questa mistificazione, falsi miti, a cui, secondo Pasolini, ci siamo in gran parte tutti quanti assuefatti. Poiché nell’antico equilibrio il bene era appunto nell’Armonia[2], nel benessere della Natura, di cui noi facevamo parte, oggi diremmo dell’ecosistema, di cui dovremmo fare parte (se lo comprendessimo), e quindi della collettività che rappresentava l’unico modo per l’uomo di esistere; comprendendo questo si capisce quanto poteva essere pesante la pena dell’esilio, un classico delle tragedie greche, come anche quello di Oreste e vedremo proprio di Pilade, ma potremmo arrivare a Dante e perché no, a Pasolini stesso, visto che lui sentiva ancora forte l’eco di quel vivere, nel mondo contadino ed amicale del suo Friuli. Si potrà obiettare che il potere con la forza c’è sempre stato è insito nell’uomo, certo, ma nell’Iliade stessa, veniva mitigato dall’amore, dall’amicizia, dalle cure parentali, dagli affetti, addirittura quelli dei troiani, da un bene che comunque poteva persistere seppur sotto traccia. Ma il concetto di benessere è mutato nei secoli e con la modernità ed il post moderno, il bello è divenuto ciò che appaga l’ego: il potere dell’apparire, il consumismo ha permesso l’espandersi della brama a tutti i livelli e quello che era considerato hybris si è esteso nelle masse. Un benessere completamente materiale. Le tre belve di Dante: lontra, leone e lupa è come se si fossero impossessate dell’umanità. Quello che più colpiva Pasolini era rendersi conto che, prima, i proletari e, poi, i sottoproletari stessi, abbandonavano l’utopia (una speranza, per un mondo migliore conservando l’antica sacralità, speranza che Pasolini aveva fatto sua e che esprime nel suo impegno nella prima fase della sua produzione e anche nell’Orestea) e invece sceglievano lontra: ipocrisia /apparire /lussuria/amore tirannico; leone: orgoglio/superbia/ira/scientismo e infine la magra lupa: neoliberismo capitalista /avidità/brama/consumismo.
Il benessere comune è stato sostituito dai beni personali o presunti tali, da qui un realismo piuttosto pessimista nella sua produzione finale, in cui lascia intendere che gli stessi esseri umani sono diventati cose e quindi prodotti del consumismo, la tragedia di Pilade si inserisce proprio tra queste due fasi, quando nella realtà che lo circonda, a metà degli anni ’60, il Bel Paese ha ormai assunto una direzione ben precisa, almeno per Pasolini perché, e questo lo abbiamo capito spero, di chiaroveggenti ce ne sono stati sempre pochi, ed oggi, sembra ancora meno. Oggi non esiste più una pena come l’esilio, perché nel mondo della globalizzazione e del mercato unico, la gran maggioranza della popolazione mondiale, e oramai non solo in occidente, è già esule senza neanche saperlo, avendo perso parte delle sue antiche radici, a voler essere ottimisti, è un’opportunità di lavoro e di benessere all’estero. Benessere inteso sempre come soddisfazione dell’ego. Ma l’esilio non è solo distacco materiale dalla propria terra di origine, ma dalla propria comunità, dai sentimenti, da un antica armonia, e spesso non c’è nemmeno più bisogno quindi di cambiare residenza per sentirsi sradicato.
Chi era Pilade? Da dove nasce. La cultura greca, il mito, la poesia, la tragedia e l’epica sono state alla base anche della cultura romana e poi di tutto l’occidente, Pasolini al liceo traduceva il greco all’impronta. Tanto che anni dopo, nel 1960 Gassman gli affidò la traduzione dell’Orestea di Eschilo per rappresentarla con la sua compagnia al teatro greco di Siracusa. Successivamente Pasolini avrebbe girato l’Edipo Re di Sofocle e la Medea di Euripide, con la grande Callas, avendo scelto il linguaggio del cinema. Avrebbe voluto girare anche un Orestea africana di cui ci rimane un documentario[3], girato, appunto. in alcuni paesi africani, ancora non contaminati in quei tempi, tra i luoghi e le persone che Pasolini andava a cercare prima di girare un film, ma non se ne fece niente. I suoi tentativi non sempre ebbero un successo di pubblico, nel senso che non sempre germogliò e fiorì quello che lui provava a seminare.
D’altronde anche Teorema, un film del ‘68, fu poco compreso. Senza un po’ di conoscenza delle ‘Baccanti’ di Euripide rimane effettivamente alquanto criptico a molti, seppur vinse alcuni premi. A suo tempo non lo comprese parte della sinistra, quella parte che nel suo libertarismo di superficie lo accettò come il lavoro antiborghese di un strano intellettuale di sinistra, tantomeno la destra, infatti tra i conservatori più bacchettoni fu accusato di oscenità e voleva essere censurato.
Seppur ambientato in una famiglia borghese della Milano bene, abbiamo qui un postino (Messaggero) che avvisa della venuta di un bel giovane, (il dio Dioniso) di
cui si innamorano (Eros) tutti i componenti della famiglia, il dio poi se ne va ed ognuno deve metabolizzare anche molto dolorosamente quell’incontro e soprattutto quell’abbandono (metafora della morte di Dioniso nel nostro vissuto). Ma se non si percepiscono questi particolari mitici il film rimane di difficile lettura ed in questo senso si comprendono i due diversi schemi di mala interpretazione dell’opera. Perché Pasolini non ti spiega i personaggi, entrano così, senza un nome o un apparente motivo e se letti razionalmente e senza un retroterra culturale, possono apparire poco comprensibili, ma sono antichi archetipi che possono essere compresi, appunto inconsciamente come tali, poiché pulsano comunque dentro di noi, a ravvivare una nostra parte nascosta, simboli di un inconscio collettivo da ridestare; un dio greco nella famiglia borghese, la catarsi anche distruttiva nel rapporto con una figura messianica.
Inoltre, nessuno lo ha detto, perché oggi pensiamo che teorema abbia a che fare solo con la matematica, ma Pitagora oltre a coniare il termine filosofia, ci ha lasciato anche questo, teorema appunto ed i pitagorici al fine cercavano l’omoiosis, cioè l’assimilazione a dio, e teorema voleva soprattutto dire: osservo dio, contemplo dio, che era quello che accadeva ai vari personaggi del film (madre, padre, figlia, figlio e cameriera). Va detto che il film ebbe riconoscimento e premi sia a Venezia che dall’OCIC, organizzazione cattolica che si occupava di cinema.
Da qui la domanda che molti si fanno, al giorno d’oggi, possiamo intendere Pasolini come un tradizionalista? Certo, tout court, diremmo di no. Soprattutto se intendiamo per tradizionalisti coloro che cristallizzano delle idee, magari scritte da un tradizionalista del ‘800 o del primo ‘900 e le conservano gelosamente come anestesizzate in una teca della propria mente razionale e benpensante. Se invece intendiamo per tradizionalista colui che conosce e rispetta le antiche tradizioni[4], avendo la capacità di portarle ai giorni nostri, facendole vivere e talvolta sporcandosi anche le mani, allora Pasolini, sebbene con i dovuti distinguo, ha sicuramente arricchito la cultura contemporanea nel solco della tradizione. Va detto che nelle opere di Pasolini, non solo nella sua poetica, vi è più o meno sempre presente, tra i vari livelli di lettura, un filo autobiografico, come, ad esempio, per il corvo, alter ego presente in Uccellacci uccellini, che, da coloro che più amava (i sottoproletari Totò e Ninetto Davoli), finirà spolpato ed abbandonato nelle campagne romane o, come nel finale del Vangelo secondo Matteo, la Madonna, sua madre, sotto la Croce, che piange il martirio di suo figlio[5] ; così anche per l’esilio: l’esilio di Edipo, quello della Medea e vedremo quello di Oreste e poi di Pilade, che vedremo condenserà la sua sensazione di fallimento di un utopia. Di fatto anche Pasolini poteva ben sentirsi un esiliato. Si dice che nell’Edipo Re riportò la psicanalisi freudiana nel mito, ma, allo stesso tempo, osservò anche il suo complesso di Edipo; inoltre l’opera è un grave monito all’ignoranza, alla non conoscenza, diremmo all’avidya o anche alla perdita di Mnemosine. Mentre con la Medea abbiamo il tema antropologico delle nostre radici profonde, di antiche società perse nella notte dei tempi, legate al Sacro, nei due poli, maschile e femminile, qui il sole e la luna, del Re e di sua figlia nella Colchide; antiche comunità tribali in parte ancora legate al matriarcato, e poi inghiottite dalle nuove culture guerriere, dominanti e fortemente patriarcali, metafora pasoliniana della società moderna (capitalismo, colonialismo, imperialismo e non solo), che dimenticando le tradizioni porta alla tragedia, tragedia tutta dei nostri tempi. Dell’Orestea, unica trilogia[6] dell’antica Grecia, salvata nel tempo, abbiamo la sua traduzione e le rappresentazioni teatrali, si dice che rappresentasse un suo manifesto su giustizia e politica tratto da Eschilo stesso: Agamennone, che prima di partire come capo degli Achei, aveva sacrificato sua figlia Ifigenia per ingraziarsi le simpatie degli dei per la navigazione e per la guerra con i Troiani, dopo molti anni torna nella sua Argo portando sul carro del vincitore, come preda di guerra, nientemeno che Cassandra, la quale lo avverte che il ritorno è fortemente infausto, ma Cassandra non la vollero ascoltare i Troiani, né tantomeno Agamennone, sebbene chi meglio di lui conoscesse le di lei qualità. La moglie Clitennestra, non avendogli mai perdonato il sacrificio di Ifigenia, nel frattempo aveva un amante, il di lui cugino Egisto ed appena giunto a casa uccidono l’eroe Acheo, il condottiero greco della guerra di Troia, con un bipenne. Oreste invece, figlio di Agamennone e Clitennestra, era stato cresciuto dagli zii, nella Focide e suo cugino Pilade, ecco che finalmente compare, diviene anche il suo miglior amico, accompagnandolo ed aiutandolo poi in tutte le sue peripezie. Quando adulto Oreste, avvisato dalla sorella Elettra[7] sui fatti, ed interpellando l’oracolo, decide di fare giustizia e vendicare la morte del padre, uccide Egisto e, udite bene, uccide sua madre, infrangendo così un tabù, sovvertendo una Legge di Natura. Verrà quindi tormentato dalle Erinni, le Furie, entità femminili primigene che si scatenano contro chi compie atti violenti in special modo se contro la famiglia, facendo anche perdere il senno, oggi diremmo come una sorta di follia inconscia, che infatti si riaffaccia spesso in questi ultimi anni. Aiutato dal dio Apollo e dal suo amico Pilade, Oreste in perenne esilio e continuo attacco delle Erinni, giunge da Athena, che risolve tutto, istituendo ad Atene un Tribunale umano (nascita della democrazia nella tragedia) che dovrà giudicare il possibile reato, le Erinni si placano e si trasformano in Eumenidi, le benevole, Oreste viene scagionato dalla sua colpa, anche grazie al voto di Atena stessa e torna ad Argo da vincitore per governare la città attraverso giustizia e democrazia. L’armonia si re instaura, gli esseri umani, tra pulsioni e razionalità, sembrano tornare in equilibrio, sembra che la razionalità di Athena riequilibri le pulsioni vitali e primigene, ma anche distruttive, se non mediate.
Tutto ciò per Pasolini doveva anche essere una metafora del Bel Paese, nel dopoguerra, nonché del suo ideale gramsciano, una pax interna, dove si spegnevano le vendette incrociate tra fascisti e partigiani, si placava l’odio, le faide, dove si riprendeva a vivere per un bene comune in una sana democrazia e verso un vero progresso sociale, morale e perché no spirituale. Poteva essere un finale positivo, nonostante il matricidio, e tutte le sofferenze e sventure passate, un’utopia del bene da coltivare. Ma, poi, in quegli anni Pasolini aveva visto nel Bel Paese, lo svuotarsi delle campagne ed il lento ed ineludibile decadimento della cultura contadina; l’unica cultura tradizionale, legata ancora alla Natura, rimasta viva a livello popolare; quindi il dilagare del liberismo capitalistico, la morte di Mattei, l’intromissione del catodo nelle famiglie, il progressismo tradotto e mistificato ormai come sviluppo industriale e tecnologico, l’accondiscendenza della Chiesa di Roma, la nascita del consumismo di massa, la sudditanza imposta dagli Anglo-Americani, ecc. ecc.. E seppure aveva compreso quanto anche lui stesso fosse compromesso da questo mondo, era ben cosciente che non poteva partecipare a quello che lui vedeva come un nuovo inferno dantesco. Fu preso dall’ansia di trasmettere, a chi lo poteva comprendere, dove ci stavamo dirigendo, ansia che poi, nell’ultimissimo periodo, non vedendo soluzioni positive possibili, si trasformò quasi in ossessione.
Scrisse nel ‘67 la tragedia Pilade, proprio durante questo cambiamento storico ed interiore da lui compreso e assimilato. In questa opera Pasolini fa un salto indietro nel tempo e si trasforma egli stesso in Pilade, facendoci vivere la tragedia del nostro tempo, la sua tragedia, all’interno del mito antico della Grecia.
Ora, se qualsiasi mortale contemporaneo decidesse di scrivere, ad esempio, un quarto libro del Signore degli Anelli, probabilmente i tolkeniani si rivolterebbero contro, difendendo una tradizione, o presunta tale, ed avrebbero anche ragione. Figuriamoci scrivere la quarta parte dell’Orestea di Eschilo dopo circa 2.500 anni, perché Pilade è, oggi diremmo, un sequel dell’Orestea. Bisognerebbe avere un ego smisurato con un’ambizione terribile, oppure, semplicemente, essere un folle, per fare una cosa del genere. Probabilmente Pasolini poteva anche avere, in parte, entrambe queste caratteristiche, se nonché ne aveva ampiamente una terza, che data l’estrema povertà dei nostri tempi, a cui siamo più o meno tutti avvezzi, non prendiamo mai in seria considerazione: era profondamente geniale. Lui in due mesi aveva tradotto, interpretato e rielaborato al suo interno, l’Orestea di Eschilo e dopo sette anni la proseguiva con Pilade, nella Argo dove ormai regnava Oreste. La Dea Atena intanto spingeva per una fredda e, oggi aggiungeremmo scientista ed ipertecnologica, Ragione al Governo, mentre parallelamente Oreste, suo devoto, conduceva il Paese verso un vuoto sviluppo materiale, dipinto di progressismo (mistificazione in cui iniziano a cadere anche vari compagni di Pilade-Pasolini); Elettra nostalgica della passata tirannia del padre Agamennone, (metafora di un’altra nostalgia ancora ben presente in Italia, di cui Pasolini era ben conscio) per un po’ rimane la migliore amica di Pilade-Pasolini, che non accettava la direzione di come si andavano a sistemare le cose e si andava ribellando allo status quo; le stesse Eumenidi iniziavano a tornare Erinni, quindi malevole, sintomo che quando la giustizia é falsa le pulsioni distruttive inconsce si riaffacciano.
Ma alla fine Pilade si trova tutti contro e si sente tradito tre volte: dall’amico Oreste, accecato dal futuro da conquistare e dal potere; da Athena, una via di mezzo tra una sacerdotessa di una nuova religione dogmatica: la nuova chiesa della ragione e della scienza, perdendo in gran parte la sua origine sacra; e, infine, da Elettra stessa, che non vuole una profonda rivoluzione, ma per il quieto e comodo vivere borghese, si accorda bene o male con il fratello Oreste. Oreste, che a sua volta, si sente egli stesso tradito dal vecchio amico, non comprendendolo e non riconoscendolo più e che, a questo punto, manda in esilio, come traditore della Patria.
Quindi esilio di Pilade nelle montagne ( forse ricordo dei briganti in montagna nel sud, alla conquista Savoia del Regno Borbonico, o meglio, senz’altro, dei partigiani in montagna, dopo il 1943, o del Che, in Bolivia, chissà) e nelle campagne, con quel poco che è rimasto degli antichi contadini e della loro saggezza, basata sul rispetto nel rapporto con la Natura e con la Vita, accompagnato anche da parte delle Erinni, che cambiando aria, si ritrasformano in Eumenidi, tornano di nuovo benevole. Sembra esistere ancora una possibilità, una speranza, un sogno rivoluzionario. Ma l’utopia di Pilade – Pasolini, eroe antieroe, fallisce finendo in tragedia (l’attrazione del benessere materiale per i più è troppo forte), metaforizzando il suo sogno infranto di rinascita degli italiani, un cambiamento utopistico per il bene del popolo tutto; oggi lo sappiamo non poteva che finire in tragedia, infatti dopo otto anni Pasolini fu ucciso, ci rimane tutto il resto, che ancora oggi ci avvolge, e noi, infatti, siamo ancora qui a cercare di riattaccare i cocci.
Il lascito di questa opera, nel solco della tradizione appunto, ci dice che nei momenti critici la democrazia è anche e soprattutto esprimibile nel potere/dovere[8] di dire un no forte, convinto e responsabile, non tanto nell’oggi inflazionato concetto di resilienza[9], che rischia di diventare accondiscendenza.
Secondo Pilade – Pasolini, dire no a poteri inferi è l’unica scelta, tutta umana, realisticamente possibile, però per avere un minimo di successo bisogna risvegliare le coscienze, che è proprio quello che l’intellettuale Pasolini tentava di fare, perché se non si ricrea una comunità retta nell’armonia, nel bello e nel buono (cosa che per lui stava già scomparendo nel 1967 in Italia, assuefatta dal consumismo anche negli strati sociali meno abbienti, è questo il fallimento del Pilade), da soli si può fare ben poco in termini materiali, ma almeno conservare la propria dignità, cosa per altro non proprio da poco, certo nella Grecia antica. Recentemente sono state rappresentate più Piladi, da quella greco classica pasoliniana ad interpretazioni più moderne, ambientate in questa Europa, attraversata da varie crisi: economica, climatico ambientale, politica, di genere, spesso tralasciando il valore del sacro.
Pasolini vedeva nella morte di Dioniso, anche la crisi del comunismo, almeno come l’aveva lui sognato, perché senza Dioniso abbiamo anche la morte dell’utopia, della speranza, della spinta primaria. Questo pochi l’hanno capito e coltivato (tenendo conto che in questi ultimi 50 anni tutto il mondo è andato in una sola direzione a velocità impensabile fino a pochi anni prima: genetica, biotecnologie, informatica e tutte le nuove tecnologie che Pasolini neanche poteva conoscere, figuriamoci gli antichi greci), ma questo metodo di lettura della realtà è ancora valido, la relazione Purusha Prakriti (Essenza e Sostanza, Shiva e Shakti, Vino e Pane, Sangue e Corpo, Dioniso e la Grande Madre, Yang e Yin, Saggezza e Compassione, Sole e Luna) esiste al di là della ragione; possiamo credere che queste cose non esistano, che Dionisio sia una vecchia stupida superstizione, ma anche questa nostra sicumera rimane, appunto, una credenza. Anche se alla mente dell’uomo moderno questa può sembrare una blasfemia, tutto ciò può anche essere una chiave di lettura del sempre più difficile rapporto tra uomo e natura, così acuitosi negli ultimi tempi: la società della globalizzazione è anarchica, nel vero senso etimologico del termine, cioè priva di arché, cioè crede di poter fare a meno delle leggi di natura. La stessa scienza che è nata per studiarle e conoscerle, spesso cerca di aggirarle in una sorta di hybris collettiva a cui i più si adeguano. Ma, in una lettura tradizionalista, tutto il cosmo è conforme a tali leggi e non può essere una sola specie animale (seppur potenzialmente sacra anche essa, posta su un piccolo pianeta dell’Universo) a poter cambiare le cose, e se non lo capisce con i suoi possibili buoni strumenti, che la natura stessa ci ha regalato, proprio la Natura stessa, Maat (20), rimetterà ordine, per iniziare un nuovo ciclo. Se invece ci mettiamo in ascolto ed usiamo questi strumenti (come ha fatto anche Pasolini) per comprendere noi stessi e la realtà che ci circonda, insieme a tutto il nostro bagaglio culturale, di qualsiasi tipo sia, avremmo, ancora oggi, o forse, per tutto quello che abbiamo detto, ancor di più oggi, un modo molto più amplio e naturale per leggere tutto il mondo che ci circonda e quello dentro di noi, e magari daremo qualche possibilità in più, a questo mondo, affinché nascano e si evolvano nuovi chiaroveggenti, che aiutino il genere umano ad uscire da un vicolo cieco che si è costruito da solo.
[1]Una serie di denunce per vilipendio alla religione, anche da Azione Cattolica. Con il Vangelo secondo Matteo riceve il primo premio dall’Office Catholique International du Cinéma.
[2]Nella tradizione indiana questa armonia è espressa dai concetti di Purusha e Prakriti, identificati nell’aspetto maschile di Shiva e del suo femminile Shakti. In questo senso abbiamo l’interessante lavoro di A. Daniélou: Siva e Dioniso - La religione della Natura e dell’Eros, della Ubaldini edizioni. Sappiamo che Shiva ha anche la forza distruttrice e così il suo femmineo, in questo caso Kali, certo difficile da comprendere nella sua furia distruttrice, per noi occidentali, ma Kali fa strage di demoni, d’altronde nel tantrismo la realtà non è maya, il mondo illusorio che continuiamo a scorgere come reale, tutti ancora dentro la grotta di Platone, ma la siddhi, il potere spirituale. E’ a quello che fa riferimento la più antica mitologia greca e Pasolini stesso.
[3]Come girò un interessante documentario in Palestina prima di girare Il Vangelo secondo Matteo, “ma quei luoghi e quei volti, lì, non ci sono più”; li trovò poi a Matera. Poi fu costretto sempre a spostarsi nel sud del mondo per rubare l’innocenza, lo spirito selvaggio primario, la vitalità, ancora lì presenti (Africa, Medio Oriente).
[4]Pasolini non amava il teatro moderno, tantomeno quello contemporaneo e la stessa cosa o ancor di più per la poesia. I suoi poemi in terzine hanno un antico sostrato che sembra sorretto dalle Muse.
[5]Inconscio (o sovra conscio) presentimento alla sua fine? Che si affaccia forse anche nel finale di Porcile dove il giovane, che odia i padre borghese (!), finisce per farsi sbranare dagli amati maiali.
[6]Purtroppo, sempre di Eschilo, è andata in gran parte perduta la trilogia su Prometeo.
[7]Elettra: successivamente sia Sofocle che Eschilo scrivono due opere incentrate su questo personaggio, che ha un grande ruolo nell’Orestea di Euripide (un femminile tradizionale a seconda delle opere corroso più dall’odio, o dal senso di colpa o dalla voglia di vendetta) e vedremo non superficiale affatto nella Pilade di Pasolini.
[8]Essere coscienti della realtà che ci si manifesta può portare al non accettare fermamente determinate regole, imposizioni, protocolli, attraverso una scelta morale, politica, esistenziale e spirituale (non è certo per tiepidi). Le tragedie greche stesse ce lo mostrano a chiare lettere, Elettra stessa non cede per anni, mentre Crisotemi, sorella minore, si è adattata alla situazione. Ma il massimo dell’espressione di questo sentimento lo abbiamo nell’Antigone di Sofocle, che pone le Leggi di Natura, giustamente al di sopra delle leggi di Stato, pagando con la vita. Anche qui c’è una sorella Ismene che non ha il coraggio di opporsi a quello che era sacrilego, adattandosi alla situazione e rifiutando di aiutare la sorella.
[9]Nella visione tradizionalista, vista oggi, Crisotemi e Ismena si vanno ben ad adattare al concetto di una vuota e passiva resilienza. Il potere ha sempre odiato la disobbedienza, anche quella civile, oggi più che mai, basandosi sul consenso, per questo una tiepida resilienza diventa un valore da trasmettere alle giovani generazioni.