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La caccia al cervo sacro - (di A. Bonifacio)

Mentre attraversavo London Bridge

Un giorno senza sole

Vidi una donna pianger d'amore

Piangeva per il suo Geordie

Impiccheranno Geordie con una corda d'oro
È un privilegio raro
Rubò sei cervi nel parco del Re
Vendendoli per denaro

Sellate il suo cavallo dalla bianca criniera
Sellatele il suo pony
Cavalcherà fino a Londra stasera
Ad implorare per Geordie

...

(Geordie è un'antica ballata nata intorno al XVI secolo e ripresa tra gli altri da Joan Baetz e Fabrizio de André).

Premessa

Affidiamo l’esordio di questo lavoro dedicato alla caccia al cervo sacro alle parole di colui che probabilmente è il più abilitato studioso del tema, ovvero Carlo Donà:

Le circostanze in cui affiora questo tema possono naturalmente variare assai ampiamente: alla caccia si possono sostituire il rito sacrificale, il vagabondaggio senza meta, l'erranza avventurosa, la migrazione, l'esilio. Variano, sia pure entro un ambito non eccessivamente ampio, anche gli animali che adempiono a questo compito: tori e colombe, cervi bianchi e cinghiali, lupi e arieti, si alternano nel ruolo, almeno apparentemente, con imparziale disponibilità. Stranamente, però, in tanta varietà di aspetti, le mete a cui l'eroe giunge seguendo la sua guida ferina sono per lo più estremamente prevedibili, e si lasciano agevolmente raggruppare in poche categorie ben precise. Secondo i casi, l'animale guida può infatti condurre alla conquista di un nuovo territorio oppure al luogo in cui fondare una città o un centro di culto; può dischiudere un’insperata via di salvezza a colui che si trova in una situazione critica; può all'opposto condurre chi lo segue all'altro mondo o alla morte, ovvero può guidarne il cammino al luogo abitato da una donna oltremondana di rapinosa e sconvolgente bellezza. Entro queste quattro categorie principali, che chiamerò rispettivamente, versione territoriale, versione salvifica, versione oltremondana e versione erotica, si possono raggruppare praticamente tutte le molte occorrenze del tema. (C. Donà, Per le vie dell’altro mondo, p. 11) 

Porto Badisco e la “sua” caccia al cervo

Nel suo brillante scritto dedicato alla grotta dei Cervi di Porto Badisco la ricercatrice Maria Laura Leone evidenzia le caratteristiche “semantiche” della grotta nella quale è illustrata, attraverso la presenza di circa 3000 pittogrammi, quello che ha la sembianza di un racconto mitologico ambientato in parte in “questo” spazio–tempo e, correlativamente, in un spazio tempo “altro”, come sarebbe documentato dalle inequivoche immagini fosfeniche impresse sule pareti che si sommano a quelle prettamente figurative.

Il grande reticolo cavernoso di Porto Badisco si presenta come un luogo di iniziazione e, come tale, assume una dimensione di grande importanza nel passato tessuto antropologico e rituale dei luoghi segnati dalla presenza regionale di una fitta rete di intrecciate testimonianze cultuali preistoriche e protostoriche. Le pareti affrescate del sito contrassegnate dal predetto peculiare linguaggio pittorico starebbero a significare, data l’astrattezza formale delle immagini, la penetrazione dell’iniziato in un mondo “altro” di cui però egli sembra ben comprendere le caratteristiche e nel quale è capace di muoversi grazie alla presenza dei vari “istruttori” che ivi incontra: donne, animali, sciamani, spiriti, che, opportunamente, si affacciano nelle varie scene con compiti e funzioni che si possono solo intuire ma non certo definire.

Il cacciatore ripercorrerebbe così, in forma di itinerario rituale, una vicenda mitica prototipica diffusa e antichissima, declinata in ogni latitudine e in ogni epoca in varianti rizomatiche sviluppatesi intorno a un solidissimo  mitologhema che fornirà adeguato impianto narrativo a una miriade di successivi racconti e che riposa su due protagonisti essenziali, accompagnati da altri di immediato contorno.

I due ineludibili attori sono un cacciatore e un cervo. Questo non si sottrae affatto agli intenti del cacciatore, anzi ne vellica l’azione venatoria e ne scruta con sapienza le mosse, per condurlo attraverso un itinerario stabilito a un certo punto fatale dello stesso itinerario, prima di essere ivi abbattuto adempiendo quindi al suo ruolo “eucaristico” predestinato.

Con la sua morte “tutto è compiuto”, anche se indefinite varianti possono concorrere a mutare le coordinate del tema addirittura invertendo ruoli e azioni.

La coppia predetta, a Porto Badisco, agisce, come detto, insieme a numerosi altri personaggi, di più rapsodica apparizione e difatti si riscontra la presenza piuttosto costante di uno o più sciamani, che seguono o sorvegliano il cacciatore, e di due cani. La prolungata vicenda, non certo integralmente intellegibile, si snoda nelle dodici zone con cui è ripartita la narrazione che occupa circa 80 “quadri” a formare davvero un unicum narrativo che sottende un retrostante possente mito a sostegno del rito.

Una delle figure più rappresentative di questo retrostante universo sciamanico è la “sciamana dei serpenti” Fig. 1, che, odiernamente, è l’emblema stesso della località, la cui schematica morfologia anatomica, come quelle di innumerevoli rappresentazioni rupestri presenti nel medesimo luogo, è contraddistinta dalla serpentinità dei tratti Fig. 2. Sembra quasi così delinearsi una ideale contrapposizione tra il cervo, ritenuto nemico se non cacciatore dei serpenti, e le onnipresenri forme sinuose, che si massimizzano nella complessità dei “grovigli”, di cui i corridoi della grotta abbondano come modello rappresentativo dell’Altrove.

Fig. 1 - La “sciamana dei serpenti” è stata accostata alla dea dei serpenti di Creta per le indubbie affinità che collegano tra loro queste due figure (foto M. L. Leone, 2009; da https://www.preistoriainitalia.it/scheda/grotta-dei-cervi-porto-badisco-le/#).

Fig.  2  -La “dea dei serpenti” di Creta. (da Wikimedia Commons, File:Snake_Goddess_Crete_1600BC.jpg, autore: Chris 73).

Proprio a causa di queste caratteristiche, sommariamente enunciate, l’autrice del citato saggio non ha difficoltà a paragonare, per complessità e per finalità, la composizione badeschiana all’iniziazione eleusina, definendo, per l’appunto, la località otrantina come la ”Eleusi neolitica” in cui le tracce immaginali di questa iniziazione venatoria ne costituirebbero la compiuta liturgia, estaticamente condotta, “una liturgia lunga 600 metri”.

Un parallelo non certo emotivo questo, quanto piuttosto frutto di un ponderato ragionamento.

Il rito, del resto, qui come a Eleusi, è la traduzione liturgica del mito e Porto Badisco ne è un’efficace e singolare dimostrazione, tanto più significativa in quanto trattasi di un reperto iconografico di grande antichità, in quanto risalente al neolitico, e che appare, più che verosimilmente, erede di un antecedente orizzonte non solo mesolitico ma, propriamente, paleolitico, e quindi un retrostante periodo di indeterminata lunghezza in cui il mito della caccia al cervo deve aver avuto la sua remota origine. Tale pattern mitico si sarebbe perpetuato in un’ininterrotta continuità dal paleolitico al neolitico, tra genti del medesimo ethos e questo, ci pare, sia l’assunto fondante la tesi di Costa e Alinei.

Il pattern sarebbe finito pressoché integro in tempi storici con tutta la sua carica fascinans ancora intatta.

A parte l’uomo–cervo (o sciamano cervo) documentato nella grotta dei tre Fratelli in Ariège e scoperto dall’Abbé Breuil. esiste un vastissimo repertorio di immagini teriantropiche e teotropiche che rappresentano l’uomo–cervo e il dio–cervo (Cernunnus ad esempio) in vari contesti culturali geograficamente e cronologicamente lontani. Particolarmente impressionanti sono quelle del sito mesolitico di Star Carr in Inghilterra, dove s’indossavano, presumibilmente per motivi cultuali, non solo palchi di cervo ma interi teschi dell’animale, che erano portati facendo passare una corda attraverso i fori che si vedono nelle immagini. Fig 3

Fig. 3 - Copricapo ritrovato nel sito mesolitico di Star Carr in Inghilterra (ca. 8.000 a. C.) fatto con un cranio di cervo con corna triplici (https://www.britishmuseum.org/collection/image/33826001).

Di recente il ricercatore Massimiliano Palmesano ha ripercorso le tappe della ritualità che ha coinvolto questo animale documentandone vivaci manifestazioni folkloriche in ogni dove tuttora sopravviventi, quasi miracolosamente, anche in Italia. Le testimonianze sono state raccolte nel suo testo L’uomo cervo: pantomima, mito e rito.        

In questo contesto ininterrotto di attenzione mitologica, rituale e infine folklorica e in considerazione del fatto che il “racconto mitologico” di Porto Badisco abbia il suo posto in una ideale metà, collocato com’è tra preistoria e storia essendo inquadrato nel Neolitico, non può sfuggire che la figura emblematica del cacciatore sia stata oggetto di una qualche possibile identificazione mitologica successiva, accarezzandosi la possibilità che si sia di fronte a una sorta di prequel di Ercole. Così scrive in un passaggio il ricercatore Paolo Galloni ne Il dio cornuto Alcune metamorfosi di una divinità paleolitica:

In India il soprannome di Indra era Trita, il triplice. Ora, esiste una tradizione italica secondo la quale un altro nome di Eracle sarebbe stato Trecaranus, dai tre corni. Si aggiunga che nella religione votiva celtica compare un toro dalle tre corna, definito Tarvos trigaranus in un’iscrizione, e che un personaggio dai tre corni è raffigurato nell’atto di combattere mostri su steli daune del secolo VII a.C.. Infine, una figura umana con tre corna compare insieme a scene di caccia con arcieri e branchi di animali in dipinti parietali preistorici scoperti a Porto Badisco, nei pressi di Otranto; si tratta, forse, di un precursore del dauno Trecaranus. L’accostamento, assolutamente pertinente, è stato proposto da Walter Burkert [1996: 148].

Questa potrebbe essere la figura del possibile Ercole Neolitico di Porto Badisco che in effetto sovrasta le scene sottostanti e che era stato altrimenti identificato come uno “sciamano”. La narrazione parietale in cui agisce tale figura si trova collocata all’esordio del percorso facendo parte del gruppo 2 della seconda sala, detta sala dei centauri, così denominata a causa delle figure con la testa rovesciata inserita in un corpo di quadrupede che si scorgono in basso a destra. Questa bizzarra immagine è presente congiuntamente a una scena di inseguimento con cervi (anch’essi a tre corna) cacciatori e cani Fig. 4. Le immagini delle tre corna, dette altrimenti “ancore”, sono riferite da Maria Laura Leone comunque come possibilmente attinenti a entità della sfera spirituale.

Fig. 4 - In alto a sinistra si vede la raffigurazione del presunto Ercole neolitico accompagnato dai suoi cani che sovrasta una complessa scena di caccia (da: La Capsuleria, http://www.leccecronaca.it/index.php/2016/08/02/diario-del-giorno-dopo-inaugurazioni-i-percorsi)

 

Non entriamo certamente nel merito di una cosi complessa vicenda, limitandoci comunque a sottolineare, sia pure en passant, che effettivamente delle parentele tra alcune immagini di Porto Badisco e le steli dei Dauni sono senz’altro presenti e mostrano Convergenze iconografiche indiscutibili. Tali strette parentele paiono evidentissime nelle immagini del “Capovolto”. Si tratterebbe nella circostanza di un curioso rito in cui si vede un uomo tenuto per i piedi e sospeso al suolo da due sacerdoti (?) e quindi rappresentato con la testa pendente in basso. Dal confronto non può non risultare evidente la nettissima parentela, se non identità, del modello iconografico delle due testimonianze nonostante le rappresentazioni non siano certo cronologicamente prossime. Questo è un elemento, insieme ad altri sui quali non ci intratteniamo, che rende accreditabile l’idea che il neolitico abbia trasmesso poi in tempi storici un patrimonio simbolico di ben antecedente antichità.

Il cervo e il cacciatore

L’illustrazione tra le più significative inerenti il mito della caccia al cervo magico presenti a Porto Badisco è, a giudizio di chi scrive, una piccola immagine presente nell’antro denominato “Salone Rosso”, dove gli schematici disegni dei nostri predecessori sono stati resi in ocra rossa, tecnica pittorica che poi, proseguendo nella loro penetrazione tra le gallerie, verrà abbandonata e sostituita, pressoché integralmente e con intenti evidentemente simbolici di cui ci sfuggono grammatica e sintassi compositiva, dal colore nero dovuto al diffuso uso del guano.

Ciò di cui si parla si trova nella terza sala del secondo corridoio Fig.5, un ambiente che praticamente si situa all’esordio del prospettato percorso iniziatico ed è proprio qui che può notarsi il nocciolo narrativo che fa da base a tutta la struttura del mito, mito che poi, in tempi storici, diventerà racconto e, in particolare, racconto cavalleresco di cui necessariamente si dirà qualcosa più in appresso.

1223 Fig 5 Cervo e cacciatore M L Leone

Fig. 5 - Una panoramica completa del nostro cacciatore in immagini sapientemente raggruppate da Maria Laura Leone in cui si notano anche le assistenti femminili che indicano la strada che il cacciatore, e quindi l’iniziato, dovrà percorrere per giungere alla sua lontana meta. Ci soffermiamo solo sul dono che il cervo fa al suo futuro uccisore, esordio di tutto il percorso che l’animale guida farà percorrere anche all’iniziato (M. L. Leone, La fosfenica grotta dei cervi, p. 20 - per gentile concessione dell’Autrice).

In questa immagine si mostra come inequivocabilmente sia il cervo a offrire l’arco al cacciatore, invitandolo così implicitamente all’inseguimento in un territorio di cui l’animale fatato, se non addirittura teofanico, conosce perfettamente l’itinerario e che è destinato all’acquisizione terminale di una “rivelazione”, di una “illuminazione” da parte del suo inseguitore. Nella parte superiore della medesima composizione v’è l’immagine del cacciatore che sembra finalmente “completo” in quanto provvisto dei suoi operativi strumenti “liturgici”: l’arco e la freccia. Nella circostanza, quindi, sarebbe illustrato il risultato “ideale” e speciale di questa “dono” (l’arco), ovvero il cacciatore finalmente armato di tutto punto e pronto alla sua queste.

Il pattern mitico o mitologhema che dir si voglia è quindi individuato da una modalità operativa: non si trova cervo (mitico) senza che un cacciatore, magari con la sua muta di cani, si sia posto al suo inseguimento.

Nei testi sull’argomento che via via si sono sedimentati nelle varie epoche storiche, uno dei mitologhemi connessi all’azione dell’animale–guida compare con forte rilievo nel motivo della porta invalicabile (o del fiume da guadare), che esprime in maniera lampante la presenza di una frontiera fra due mondi, uno dei quali normalmente precluso all'uomo ma che, eccezionalmente, può aprirglisi proprio grazie ai poteri soprannaturali della sua guida.

Nella circostanza di Porto Badisco non sembra che sia leggibilmente configurata tra le immagini una porta “simplegade”, posta iconograficamente a far da barriera tra i due mondi, né, allo stesso modo, è evidenziata la temporalità “cairologica” in cui l’inseguito prosegue il suo viaggio nella dimensione “altra”, dopo aver varcato tale supposta soglia, ma, sicuramente, l’immersione nell’universo fosfenico, in cui l’attore si trova ad agire, segna e decreta l’avvenuto passaggio tra una dimensione e un’altra, e per questo, di certo, una “porta”, tra i grafismi badeschiani, deve esserci stata, in qualsiasi modo essa sia stata resa alla coscienza dei protagonisti.

Probabilmente la “porta” è individuabile propria dalla morfologia della grotta sotterranea contraddistinta da passaggi tra ambienti morfologicamente piuttosto distinti tra loro.

Come annota Carlo Donà, nel suo saggio fondamentale Per le vie dell’altro mondo L’animale guida e il mito del viaggio, il varco schiudibile è indispensabile a unire e, insieme, a dividere due condizioni assolutamente “altre” e difatti su ciò il ricercatore offre su ciò queste precise informazioni:

Il viaggio oltremondano traduce narrativamente l'esperienza di morte, e di rinascita, propria del percorso iniziatico: negli animali guida è perciò possibile vedere i diretti discendenti degli spiriti in forme animali che aiutano lo sciamano nel suo viaggio estatico o procurano l'iniziazione, trasmettendo una conoscenza sacra e segreta, che non si deve divulgare pena la morte (p. 337). 

A questo punto, per meglio apprezzare i successivi passaggi, si devono prendere in esame alcuni aspetti della simbologia offerta dalla morfologia anatomica del cervo per comprenderne appunto la sua specifica “qualità” di essere prescelto al fine di rappresentare il conduttore o medium verso l’indicibilmente “altro” e con ciò rendere conto della sua caratteristica di presentarsi quale essere “buono per pensare”, iniziando questa breve annotazione su tale tematica da un punto di vista fondamentale che costituisce l’in sé della “cervità”.

Nel nostro passato preistorico e nelle civiltà etnologiche recenti e attuali può dirsi che non sia mai esistita un’opposizione cultura – natura e, in definitiva, può affermarsi che solo l’Occidente si è impegnato da un pezzo a costruire questa contrapposizione fra natura e cultura, dicotomia su cui Claude Levi Strauss ha costruito il suo edificio dedicato alla comprensione antropologica delle variegate realtà umano-sociali presenti nel mondo. Difatti, secondo le più recenti ricerche di alcune qualificate correnti dell’antropologia (es. Gherard Dolmatoff, Philippe Descola, Viveiros de Castro), non esisterebbe, negli orizzonti delle civiltà etnologiche, la sopra delineata contrapposizione, quanto, piuttosto, una continuazione fluida, perché lo sguardo dell’uomo “arcaico” si posa su una realtà che percepisce indivisa e, addirittura, si potrebbe dire, che si posa su una realtà trasfigurata in divinis, vedendo in essa delle realtà che sono insuscettibili di comprensione alla percezione ordinaria quali gli animali in forma umana.

Carlo Donà, proprio nel suo saggio già citato, ha messo in evidenza, in pagine di grande importanza, il meccanismo spirituale che legittima queste tramutazioni morfologiche e che testimonia il “mutamento delle tuniche di pelle” tra i vari soggetti interessati, partendo da uno specimen dalle molte valenze mitologiche, da cui scaturiscono caratteristiche davvero ubiquitarie di percezione della relazione universale uomo (cacciatore)–cervo.

Si parla del Mito del cervo presso i Choctaw, che farebbe un poco da paradigma a questo tema della trasformazione animale–uomo e uomo–animale. Sebbene la sottostante sinossi del mito sia comunque una narrazione piuttosto estesa, varrà la pena presentarla in questa circostanza perché, pur astenendoci da specifici richiami, sicuramente si possono avvertire le assonanze mitologiche con altri orizzonti sapienziali o, comunque, con ulteriore manifestazioni folkloriche che hanno per protagonista l’uomo–cervo, magari nelle vesti di essere morto e resuscitato  dal soffio magico dello “sciamano”(non è però questo il caso della successiva narrazione).

Il mito narra di un giovane cacciatore che una notte uccide una cerva e si addormenta vicino alla carcassa. Al risveglio, con suo sbalordimento, la preda solleva la testa e lo invita a seguirla. L’animale lo guida attraverso vaste e fitte foreste e oltre alte montagne; infine la strana coppia raggiunge uno stretto pertugio seminascosto sotto una roccia, l’entrata di una caverna. Qui il cacciatore viene condotto al cospetto del re dei cervi, un animale di proporzioni colossali con enormi palchi ramificati che gli crescono sulla testa e una grande macchia sulla schiena. L’eroe cade in un sonno profondo e mentre dorme il re dei cervi opera su di lui una metamorfosi: gli sostituisce mani e piedi umani con zampe di cervo, lo ricopre con una pelle e gli pone in capo le corna. Al risveglio il cacciatore scopre di aver assunto le sembianze di un cervo e comincia a camminare a quattro zampe.

Nel frattempo, mancando il giovane dal villaggio ormai da molti giorni, sia la madre sia i suoi coetanei lo danno per morto. Poco tempo dopo, però, alcuni suoi amici trovano il suo arco e le sue frecce appesi a un ramo dell’albero sotto il quale il ragazzo si era addormentato nella notte fatale. Quindi intonano un canto e all’improvviso un branco di cervi appare e avanza verso di loro. Un esemplare si stacca dagli altri, si avvicina e dichiara di essere il cacciatore che pensavano scomparso (il medesimo concetto, sebbene ben più sinteticamente espresso, si coglie in una frase di Giordano Bruno: Vedde; e ‘l gran cacciator divenne caccia).

La madre, avvertita, chiede ai compagni del figlio di togliergli gli attributi animali, vale a dire le zampe, la pelle e le corna; essi dapprima rifiutano, temendo che così facendo avrebbero ucciso il loro amico, ma alla fine cedono alle insistenze della donna, che preferisce vedere il figlio morto piuttosto che trasformato in animale. Prevedibilmente, il giovane cacciatore non sopravvive al sezionamento e allo squartamento. Le sue spoglie sono riportate a casa e tutto il villaggio lo onora con una solenne cerimonia funebre (Donà 2003: 391).

Questa narrazione mostra come l’elemento iniziatico del mito Choctaw si confonde con quello sacrificale: il re dei cervi chiede la vita di un cacciatore come contropartita per il dono della selvaggina che concede agli uomini; ciò non avviene, però, a causa di una gratuita e incomprensibile crudeltà, ma sulla base dell’evidenza che tra cacciatore e cacciato esiste una fratellanza invisibile, resa palese dalla metamorfosi. Fig 6 a b c

Figg. 6a, 6b, 6c - Come si può constatare da molteplici esempi il motivo della metamorfosi in animale, rituale o mitica accompagna la storia umana dai primordi e ciò fino a epoche recenti. Il dio cornuto di Fumane e lo ‟sciamano” con corna di cervo della Grotte des Trois-Frères (Fig. 6a), i Signori degli Animali di Gundestrup (Fig. 6b) e di Mohenjo-Daro (Fig. 6c) sfilano idealmente insieme agli sciamani tungusi e buriati, lapponi e amerindi con i volti nascosti da maschere teriomorfe per giungere fino alle molteplici manifestazioni folkloriche tuttora viventi, come ha evidenziato Massimiliano Palmesano nel suo libro dedicato all’uomo-cervo.

(Fig. 6a: rielaborazione da incisione su pietra, in https://donsmaps.com/troisfreres.html - Fig. 6b https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Gundestrupkedlen-_00054_(cropped).jpg, National Museum of Denmark, Copenhagen, autore: Roberto Fortuna) - Fig.6c http://www.columbia.edu/itc/mealac/pritchett/00routesdata/bce_500back/indusvalley/protoshiva/protoshiva.jpg).

 

In conseguenza di ciò non solo il mondo naturale si appalesa come oggetto all’influenza di manifestazioni ierofaniche ma si presenta identicamente anche come palcoscenico di espressioni teofaniche, le quali erano e sono espresse da esseri animali o semianimali di particolari caratteristiche come la dimensione insolita, il colore non comune (sovente il colore bianco nei cervi), la superiore astuzia, l’abilità nella corsa, il potere di volare.

Allo stesso modo, come prima si diceva, illo tempore era possibile traslare tra una forma umana a quella animale (e viceversa), per effetto dell’intrinseca fluidità delle forme che erano influenzabili morfologicamente dalla ritmica del suono, che è la componente dominante in un universo ritenuto essenzialmente poliritmico, come tanto brillantemente ha proposto, ormai decenni fa, Marius Schneider, a spiegazione di quel complesso  fenomeno definito teriantropismo.

A proposito di teofanie animali può risultare davvero paradigmatica la vicenda di Sant’Eustachio, in cui il valore teofanico del cervo si mostra al suo appieno, proprio nel cristianesimo che sarà poi il grande persecutore dei mascheramenti animali e quindi del teriantropismo radicato profondamente nella cultura europea. Nella vicenda si narra come il comandante romano Placido, alla vista improvvisa di un cervo meraviglioso e di regale aspetto, si ponga al suo inseguimento per abbatterlo  e, una volta avvicinatolo, s’accorga della croce presente tra i due palchi.  É il Cristo stesso che qui si rivolge al cacciatore in “modalità paolina”, determinandone la conseguente conversione.

Nella storia di Placido il cervo non è solo un medium tra umano e divino, come ben più soventemente avviene, piuttosto è la divinità stessa, ovvero Gesù Cristo, che chiede direttamente al comandante pagano le ragioni del suo accanimento persecutorio contro di lui.  

Il cervo albero della vita

Il cervo maschio (congiuntamente ad altri cervidi quali la renna e l’alce) possiede una caratteristica simbolica che lo contraddistingue tra gli altri ungulati, è infatti dotato di un palco corneo d’aspetto arboricolo che è connesso alla ciclicità delle stagioni, in quanto, com’è noto, il predetto palco cade e ricresce annualmente seguendo il ritmo delle stagioni; non è quindi “sempre verde” e, a causa di questo suo caratteristico ciclico rinnovamento, congiunto a una spiccata similitudine morfologica con l’albero, accade che esso sia stato considerato una sorta di “albero della vita” in forma animale, come si sottolinea sia  nel Dizionario dei simboli di Jean Chevalier e Alain Gheerbrant sia in quello di Jean Eduardo Cirliot.

Nel cristianesimo cogliamo un esempio iconograficamente davvero meraviglioso della connessione del cervo con l’albero della vita, nel celebre mosaico della Basilica romana di San Clemente Fig. 7 in cui si scorgono due cervi abbeverarsi ai piedi della Croce–Albero della vita, che sorge tra un rigoglio di piante e dalla quale sgorgano i quattro fiumi del paradiso. Tale simbolismo che vede il cervo dissetarsi alla fonte stessa della vita soprannaturale può essere “invertito”, rimanendo sempre stabile il collegamento tra il cervo paradisiaco e l’albero fonte della vita eterna da cui sgorga l’acqua spirituale della sopravvita (un simbolismo che si trova nel Vangelo di Giovanni).

Fig. 7 - Basilica di San Clemente (Roma): mosaico dei cervi che si abbeverano alla fonte della Vita. (http://cervopomellato.blogspot.com/p/basilica-san-clemente.html)Fig. 7 - Basilica di San Clemente (Roma): mosaico dei cervi che si abbeverano alla fonte della Vita. (http://cervopomellato.blogspot.com/p/basilica-san-clemente.html)

Jean Danielou, in un suo mirabile scritto dedicato al simbolismo dell’acqua battesimale quale veicolo dello Spirito Santo e quindi “acqua di vita” per eccellenza, ricorda come nel Battistero di San Giovanni in Laterano l’acqua di vita sgorgasse dalla bocca di sette cervi di bronzo che furono commissionati dall’imperatore Costantino e asportati durante le invasioni barbariche (Jean Danielou:1997,54). Di recente, con Paolo VI, nel 1967 la fonte è stata diversamente arricchita di due cervi di bronzo che si abbeverano alla fonte battesimale. 

Un altro tema concorrente è necessario richiamare, ovvero la silva.

Il bosco, nel quale dimora il cervo, è già in se stesso ierofanico, in quanto ospita nell’orizzonte simbolico precristiano presenze divine, e quindi la sua elezione sacrale non è provvisoria quanto piuttosto permanente, e per questo l’apparizione dell’animale al suo interno è legata alla dimensione del “meraviglioso” per cui l’accostamento tra il portamento quasi trascendente del cervo e la sua natura sono elementi che costituiscono nella loro contrapposizione il “cuore” semantico di questo animale in quanto archetipo.

In area siberiana, a esempio di ciò, c’è una lunga tradizione narrativa che vanta numerosi esempi e che è stata documentalmente e “amorevolmente” riprodotta in alcuni studi dall’etnologo Vesa Mateo Piludu. In sintesi il tema della caccia si estrinseca in una vicenda dai tratti meravigliosi. I cacciatori si apprestano a entrare nella foresta cantando (ovvero “incantando”), e lo fanno solo dopo aver compiuto una serie di operazioni rituali di accurata purificazione per evitare di accedere al sacro in condizioni di impurità. Nel penetrare del folto del bosco si accorgono che la foresta si azzurrisce, ovvero acquisisce una qualità celeste. Accade che l’azione combinata dell’uomo con l’ambiente inneschi un processo di rivelazione della dimensione sovrannaturale e di una vera e propria trasmutazione ambientale in cui la realtà si disvela nel suo aspetto “interiore”, fortemente  e spiritualmente “vitale”, invisibile alla percezione empirica. Questa rivelazione è propriamente insita nel rito venatorio nel quale tra l’altro i termini di “caccia” e “matrimonio con la foresta”, o con le sue “creature fatate”, si rendono tra loro elementi interscambiabili del tessuto narrativo della queste e per questo, forse,  è rimasto nel gergo “andare a caccia di ragazze”.  

 

La caccia, ovvero l’inseguimento della preda. è difatti, una vera e propria queste che nei secoli subisce delle riformulazioni contingenti mantenendo però intatto un pattern venatorio comune a diverse allegorie letterarie e folkloriche in cui un cervo fa la sua comparsa ed esercita il suo articolato potere; contestualmente, cacciare o seguire questo cervo implica sempre una qualche forma di alterazione (dell’inseguitore, dello spazio o del tempo), come si è appena visto nella descrizione dell’habitat offertoci da Vesa Mateo Piludu. Mircea Eliade nel suo libro Da Zalmoxis a Gensis Khan narra un evento paradigmatico i cui tratti salienti coincidono con una di quelle quattro categorie tipologiche, individuate dal Donà e citate all’esordio di questo lavoro, che fanno del cervo il protagonista di un rito specifico di fondazione.

Racconta l’Eliade (il tema sarà poi ripreso da Roberto Calasso) che quando gli Unni penetrarono in Scizia si misero all’inseguimento di una sfuggente cerva, tanto veloce ed elusiva che ogni volta che era inseguita essa sfuggiva loro, ma, dopo essersi resa invisibile dai suoi cercatori, inspiegabilmente “si fermava ogni tanto per aspettarli”. Tanto il comportamento dell’animale apparve loro singolare che ne dedussero che la cerva aveva una natura divina, al punto che gli Unni “credettero che una divinità avesse loro rivelato il guado attraverso le paludi”, con la diretta conseguenza che la bestia “non fu più considerata selvaggina, ma guida”.

Il parallelo con Badisco è evidente e non richiede commento.

A proposito di racconti di fondazione non possiamo mancare di riprendere, proprio dall’area salentina, l’origine del Santuario della Madonna Incoronata di Foggia, santuario a cui i pugliesi sono devotissimi, insieme a San Nicola Fig. 8. Riprendiamo questa vicenda perché all’origine del santuario c’è proprio un cervide inseguito da un cacciatore, (è incerto se sia un daino o un cervo). Citato il cervo/daino ci si domanda: chi è il cacciatore? Così delinea la vicenda Maria Laura Leone:

Il protagonista umano è invece un ricco signore che andato a caccia, dopo un sogno premonitore, vede un bellissimo daino (o cervo), questo si lascia inseguire e lo conduce presso una quercia dove accade un evento miracoloso. L’albero inizia a emanare una luce folgorante e manifesta l’apparizione della Madonna (dalla pelle nera) seduta in trono tra i rami. La vergine esorterà il cacciatore a costruire una cappella in suo onore nella quale elargirà grazie ai fedeli (M. L. Leone, p. 56).

 

Fig. 8 - L’immagine di questo vecchio santino mostra l’opera di risemantizzazione del tema del cervo che conduce il cacciatore fino all’albero sacro in cui si disvela una teofania religiosa secondo il modello fornito da Carlo Donà, ovvero la fondazione di un nuovo centro di culto e nel caso di specie il santuario mariano dell’Incoronata. Il cervo qui è stato totalmente abolito e forse persino demonizzato, occupando ora l’arcangelo Michele che uccide il demonio, secondo la consueta iconografia che lo rappresenta, il posto del cervo e del cacciatore presente in altre testimonianze iconografiche di questa veneratissima madonna nera. (da Internet)

Il racconto verrà appena dopo “aggiustato” con l’aggiunta di un sopravvenuto allevatore i cui buoi s’inginocchieranno davanti alla quercia miracolosa (tema diffusissimo dell’albero sacro, di cui la quercia è una delle specie di più consolidata sacertà), introducendo un elemento nuovo in questo genere di racconti. Resta comunque il fatto che la conduzione a questo futuro centro di culto (la prima categoria delle quattro individuate dal Donà) resta attribuita alla coppia cacciatore/cacciato in quanto l’allevatore si limiterà a constatare la soprannaturalità della situazione e a incaricarsi devozionalmente di successivi adempimenti, ma la scoperta non è a lui ascritta, né a lui è stata affidata la consegna soprannaturale.

L’iconografia successiva muterà la situazione, sarà infatti l’allevatore coi suoi buoi inginocchiati e con la sua ampolla di olio santo a far da protagonista all’evento e il cacciatore e la sua preda verranno addirittura mutati in un San Michele che, con spada e stadera, si appresta a uccidere il “demonio”, mutazione infera del cervo, ancorché all’origine sia stato proprio l’ungulato  a condurre al centro sacro il cacciatore. Forse si può parlare di una strana inversione dei ruoli: il cervo, il nemico dei serpenti, viene appunto risemantizzato nel suo opposto “complementare”, ovvero nel “serpente antico”, perché il bosco e le sue creature devono cedere il passo alle attività “civili” dell’uomo, ovvero agricoltura e allevamento.

Non v’è più spazio concettuale per la selva incolta, magica e misteriosa, luogo di accadimenti teofanici, per questo si trasmutano i suoi abitanti in esseri da debellare perché legati invariabilmente al depravato universo pagano il cui signore è l’antico Pan, ormai da tempo detronizzato dal suo ruolo.

L’oscuramento del simbolismo della selva e delle sue creature inizia già all’epoca di Carlo Magno, in cui il prima “meraviglioso”, la foresta e i suoi abitanti, assume progressivamente i tratti tenebrosi della signoria demoniaca, Così il  bosco, la selva intonsa non più si “azzurrisce” all’ingresso dell’uomo ma accade esattamente il contrario, diventano invece i luoghi topici di un’invertita “densità ontologica” da sfuggire, “rettificare”, anzi, o ancor di più, reificare (cfr. su ciò: Anna Benvenuti, Il Santo, il saltus e l'orso. La desacralizzazione cristiana della natura, e Mario Giannitrapani, Ierobotanica).

Come osserva Franco Cardini, però non tutto si perde, non sempre il tentativo di ri-semantizzazione conduce alla demonizzazione. É proprio attraverso i racconti cavallereschi che le creature della foresta e del bosco - l’orso in particolare, il più perseguitato - sono riabilitate e ricondotte a una connotazione positiva, seppur sotto la croce del nuovo credo. Difatti Cardini scrive:

Ma i cavalieri cristiani non avevano evidentemente dimenticato il loro vecchio amico. Per quanto i bestiari non lo autorizzerebbero, l'orso rimane protagonista dell'onomastica nobiliare e delle insegne araldiche. Lo troviamo soprattutto nell'araldica medievale tedesca e francese del sud (Guascogna, Pirenei, Delfinato). La caccia all'orso resta, con quella al cinghiale e al cervo, privilegio del grandi e nobili guerrieri. L'uomo e l'orso continuano ad amarsi e a combattersi: questo è l'ordine delle cose, almeno finché l'uomo ha continuato a rispettarlo. (F. Cardini, in https://www.mondimedievali.net/Immaginario/Cardini/orso.htm)

Proprio a proposito di questa prerogativa cavalleresca nobilitante, che continua a mantenere la selva e la caccia al cervo nella dimensione mitica e insieme spirituale, va interpretato il romanzo arturiano Erec et Enide di Chrétien de Troyes, che ribadisce il modello secondo il quale è il cervo cacciato o seguito che ne determina le caratteristiche archetipiche e non i personaggi dell’evento presi in sé.

In quest’opera, Artù, senza sentire il bisogno di spiegarne le motivazioni se non adducendo quella di recuperare un’antica tradizione, prende la decisione di cacciare il cervo bianco nel giorno di Pasqua; dietro tale determinazione c’è uno sfondo erotico a muovere la decisione, legato al tema dell’amor cortese proprio dell’epoca. Questo sottofondo rimanda all’ingresso nel corpo boscoso dei cacciatori siberiani prima richiamato, parificato a un’avventura galante  Il carattere straordinario di questa operazione, compiuta, come già detto, in ossequio a una arcaica  tradizione in uno dei giorni più sacri dell’anno, e quindi in una precisa  temporalità ierofanica, è sottolineata dalle parole di re Artu che così dispone, incoraggiando i partecipanti prescelti: Di primo mattino con grande piacere / andremo tutti a cacciare il cervo bianco / nella foresta avventurosa: / sarà una caccia meravigliosa.

Non sfugga il significativo spessore delle parole: il “tempo” delle avventure non è un tempo qualsiasi, un semplice frammento di calendario, piuttosto è un tempo specialmente qualificato, peculiarmente sacro, non a caso i giorni precedenti il Natale sono denominati precisamente “Avvento”, proprio per indicarne una speciale sacertà. Accanto al ciò l’espressione “caccia meravigliosa” è, nel linguaggio proprio della circostanza, qualcosa che supera semanticamente la semplice sensibilità empirica in quanto coinvolge la dimensione spirituale dei partecipanti all’evento. Il tema del merveilleux, proprio del ciclo cavalleresco, si riconnette a questo ordine di vedute e non ad altro (sul tema si veda il saggio di Stefano Pezzè).

In tal senso, il meraviglioso si configura come equivalente letterario del sacro di cui ha scritto Eliade, e il meraviglioso in questi racconti, quale che sia la sua declinazione culturale (pagana, mitica, folklorica, religiosa), è indissolubilmente legato al cervo, il quale, sulla base del micro-intreccio archetipico, è quindi il tradizionale vettore che conduce al meraviglioso.

Nulla, quindi, di sostanzialmente diverso da quanto si è osservato tra i fosfeni di Porto Badisco, come espressione iconografica di un mondo “altro” che si può percorrere solo con l’ausilio di uno psicopompo, mostrando così una perpetuità di modello davvero significativa.

BIBLIOGRAFIA

Anna Benvenuti: Il Santo, il saltus e l'orso. La desacralizzazione cristiana della natura (da academia.edu)

Giuseppe Calasso: Il cacciatore celeste, Adelphi, Milano 2016

Jean Chevalier e Alain Gheerbrant: Il Dizionario dei Simboli, BUR Dizionari Rizzoli, Milano 1986

 Jean Eduardo Cirliot: Dizionario dei Simboli, Adelphi, Milano 2021

Alessandro Di Muro: "Silva densissima”. La percezione del bosco nel Mezzogiorno medievale (da academia.edu)

Carlo Donà: Per le vie dell’altro mondo. L’animale guida e il mito del Viaggio, Rubettino, Soveria Mannelli (CZ) 2003

Carlo Donà: Animali guida e santi (da academia.edu)

Paolo Galloni: Il Dio Cornuto. Alcune metamorfosi di una divinità paleolitica (da academia.edu)

Mario Giannitrapani: Ierobotanica, Simmetria, Roma 2010

Maria Laura Leoni: La fosfenica grotta dei Cervi. Arte Mitologia e Religione dei pittori di Porto Badisco, Edizioni Il pensiero preistorico, 2009

Massimiliano Palmensano: L’uomo cervo: Pantomima, mito e rito, Stamperia del Valentino, Napoli 2022

Stefano Pezzè: «When the white hart breaks his cover». Il disvelamento del motivo archetipico della caccia al cervo, in “L’Immagine Riflessa”, XXVII (2018), pp. 131-147 (da academia.edu)

Alessandro Testa: Mascheramenti zoomorfi. Comparazioni e interpretazioni a partire da fonti tardo-antiche e alto-medievali (da academia.edu)

 

 

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