BUSCAR EL LEVANTE POR EL PONIENTE
MARCHIANÒ - ZOLLA nel 2022
Il desiderio recondito, inconfessabile, che giace in ognuno sul punto fondo del respiro, è di potersene andare « di retro al sol, nel mondo sanza gente » (Inf. XXXVI, 117): cioè, uscire dalla storia, sottrarsi al ricatto della società, sfuggire alle limitazioni imposte dalla natura. Come dire, vorremmo risvegliarci dal brutto sogno dualista.
Con quale scopo? Per poter stare finalmente altrove, nel migliore dei mondi possibili, nel qui e ora di sempre, che è una condizione adombrata oggi dalle recentissime prospettive tecnologiche del metaverso.
Sinché queste palesi verità nascoste saranno rimosse o censurate, vigeranno i codici civili delle leggi brutali dell’umanità, ossia quelle regole che l’umanità stessa si dà nel corso dei tempi, per tentare (senza mai riuscirci) di arginare la violenza che deriva dal fatto che, nel collettivo, ogni singolo riversa gli inquinanti della propria personale deprivazione affettiva (ontogenetica) nella discarica della colossale rimozione-censura del desiderio di cui ho detto sopra (filogenetica).
In altre parole, la storia umana è un incubo reale dal momento in cui è il prodotto delle nostre duplici ipocrisie relative ai veri desideri (di retro al sol, nel mondo sanza gente…) e della castrazione delle nostre vere voglie: essere felici, vivere amabilmente nella concordia e nella cooperazione, operare nell’armonia collaborando. Tutte cose che sono di continuo negate o schernite dalla mentalità accettata dalla maggioranza, la quale risponde agli aneliti più dolci dell’io-umano con la ferrea risposta, pronta sulle bocche dei dualisti: inutile che tu lo voglia: tanto tutto ciò non è mai accaduto, nella storia… Perciò la Terra in quanto pianeta si presenta agli occhi claustrofobici dei Sapiens come « l’aiuola che ci fa tanto feroci » (Par. XXI, 151).
Questa gabbia metallica, presente già agli albori ma costruita in epoca contemporanea dall’azione pervasiva delle istituzioni della “burocrazia-di-sé-stessi”, può però essere aperta da quanti trovino le chiavi adatte. Le parole d’accesso che aprono le porte in apparenza sigillate, le Pedo-mellon-a-minno, sono tramandate da magisteri ancora attivi e, tra quelli accessibili persino ora che siamo in piena età antropofaga, ne offre uno l’opera scritta di Grazia Marchianò, la quale nel suo INTERIORITÁ E FINITUDINE: LA COSCIENZA IN CAMMINO (Rosenberg & Sellier, 2022; pp.271 €15) costruisce un dittico, un doppio sentiero concettuale, praticabile percorrendo gli orizzonti eurasiatici, partendo dall’acre paradosso del cervo himalayano
…utile a chi sia disposto ad affacciarsi sull’interstizio tra un “fuori” sbadatamente scambiato per tutta la realtà e un “dentro” da cui ogni nostra esperienza proviene e ritorna. Se ciò suona al momento oscuro, soccorre un’antica leggenda himalayana dove gli effetti funesti della disattenzione al proprio “dentro” sono illustrati da una deliziosa metafora.
Il muschio, una sostanza d’inebriante, sottile fragranza, si forma copiosa nella sacca addominale del cervo, via via che l’animale raggiunge l’età adulta. Il profumo del muschio emanante dall’addome lo eccita in misura dirompente. Alla cerca frenetica della fonte del profumo, vaga nella foresta annusando cortecce e fogliami, scontrando sui tronchi il suo palco di corna per giorni e settimane fino a sfinirsi. Come impazzito, ebbro del profumo che insegue fuori di sé, si slancia dal dirupo precipitando nel vuoto.
Chi al tavolo di gioco dell’esistenza punta tutte le sue carte sul “fuori” e ignora o trascura di avere dentro di sé le prerogative per riscattare l’inevitabilità della finitudine, assomiglia al cervo himalayano: una creatura sottomessa al “programma” di nascere per morire, esattamente come noi. Senonché la differenza tutta umana sta nel disporre di una “vista interiore” (insight) che se si accresce in trasparenza e acutezza con intenzione incrollabile, arriva a destare all’intrinseca connessione di mente e natura dove infatti “esterno” e “interno”, tangibile e astratto sono congiunti.
Se ci si è definiti Sapiens (dal latino sapio, sàpere : “assaporare”, quindi “sapere”), non è per l’intelligenza, l’astuzia, la laboriosità condivisa dagli altri esseri senzienti ma per un ardore – i Greci lo chiamavano thumòs – il cui impercettibile scatto di partenza è dentro di noi. Osservare questo “dentro” con lucidità di chi analizza una colonia di batteri al microscopio e la simpatia verso il “sistema” che ci regge – ebbene lucidità e simpatia sono gli alleati giusti sia per chi vive una vita vorticosa nel “fuori”, sia per chi trascorre il suo tempo affidando alla meditazione, al pensiero e alla scrittura quel che è riuscito ad afferrare dell’intreccio (in fisica quantistica si chiama entanglement ) tra il “dentro” della materia e il “dentro” della mente.
Procedendo in un erto itinerario tra le impronte fisiche e vitali dell’impercettibile, in una concentrata maratona dialogica con gli studi scientifici di Shen Heyong, Carlo Rovelli, Jim Al-Khalili, Teodorani e Penrose-Hameroff, sino a un ritorno a Fritjof Capra, il discorso si snoda, per concludersi in compagnia dell’astronomo vietnamita Trinh Xuan Thuan in un’estatica e muta contemplazione delle galassie nel cielo nero. Un ultimo apprezzamento andrebbe fatto all’apparato di note: come ormai di rado avviene, le dodici fitte pagine in corpo minore intarsiate a fine volume segnalano nell’autrice una lucidità, un’attenzione, una desta simpatia a 360° su ciò che di meglio si studia, nel campo, oggi.
Ma Marchianò è anche l’agente di una seconda operazione meritoria: la pubblicazione dell’opera omnia di Elémire Zolla, attiva da un decennio a questa parte. Il volume appena edito col titolo L’UMANA NOSTALGIA DELLA COMPLETEZZA. L’ANDROGINO E ALTRI TESTI RITROVATI (Marsilio, 2022; pp.381 €24) vede le stampe nel ventennale della morte del suo autore, ed è in ogni sua parte più vivido che mai. Per verificare una tale lapidaria affermazione, bisogna senz’altro andare alla lettura integrale del testo, e degli altri dodici che lo hanno preceduto in una teoria di pagine a cui la curatrice diede l’esatta denominazione di “conoscitore di segreti”. Qui, basta dire che Zolla osò esaltare Kafka e Simone Weil con un anticipo di anni rispetto all’editoria italiana, e che smitizzava il culto di Joyce mentre, ridimensionando Adorno e stroncando Jung, che fece conoscere Abraham Joshua Heschel, le tradizioni dei Nativi d’America e J.R.R.Tolkien e Marius Schneider, per aprire infine l’immenso portale della metafisica orientale.
Con una perfetta tempistica e sensibilità da sismografo, in sintonia non tanto con ciò che stava accadendo ma con quanto sarebbe potuto accadere, Zolla nel 1981, pubblicando The Androgine in inglese, annotava:
L’archetipo dell’androgino si aggira per le terre. Gli uomini, toccati dalla sua ombra, si addolciscono e allentano la presa sui loro rudi e contratti ruoli e convincimenti maschili. Le donne si risvegliano a nuovi spazi, nitidi e glaciali, a piani di precisa coordinazione in cui cominciano a tracciare con calma il proprio cammino.
Le combinazioni degli eventi “storici” dei decenni successivi, hanno fatto di questo incipit un teorema che spiega le aree del nostro “presente” storico. Ma rileggere le pagine zolliane oggi ha anche un altro valore, che non si lascia definire bensì solamente esemplificare: a pag. 53 si discetta di San Giovanni Battista e dei suoi legami coi Rig Veda indù da un verso, col trattato buddista Vanmīka Sutta dall’altro. Alla pag. 183 è trascritta la famigerata introduzione alla prima traduzione italiana de Il Signore degli Anelli, da cui originò l’intera polemica ideologica sugli Hobbit negli Anni Settanta. Alla Pinacoteca di Brera è esposta una pala di Cima da Conegliano [vedi illustraz. qui a lato] dove il Precursore presenta fisionomie efebiche e somiglia, con mezzo millennio d’anticipo, ai tratti degli attori scelti per portare sullo schermo i personaggi di Frodo, Merry e Pipino.
Casualità. Altra virtù spagirica del libro in questione, la raccolta di interviste rivolte allo Zolla che dopo il 1992 venne riammesso alle trasmissioni televisive: impareggiabile un frammento video (raccolto da Antonello Colimberti per RAIsat nelle Extra-interviste) in cui è il conduttore Augias a permettere all’autore di Uscite dal mondo di portare in pubblico un affondo alla mentalità dell’Illuminismo, per andare “al di là del razionalismo”.
Fig.2 - Cima da Conegliano, SACRA CONVERSAZIONE [part.: San Giovanni Battista; 1516] (Brera pinacoteca)
La via per il superamento dell’impasse dualista di cui ho scritto all’inizio di questa nota, c’è, ed è un percorso non-duale: percorribile anche grazie alla duplice azione euristica della diade Marchianò-Zolla, a dispetto dei tempi attuali, così superficialmente tetri. Ovvio, bisogna osare affidarsi al fragile mezzo del libro e del discorso verbale, con le sole forze della contemplazione e della meditazione.
Se i più non vedono i vantaggi di questo affidamento, è perché la cultura generale del XXI secolo risulta ancora bloccata da ceppi obsoleti, arenata sugli errori già percepibili in una vecchia pagina del filosofo Antonio Banfi, che qui sotto trascrivo per intero
“Se noi ora vogliamo chiedere verso quale mito sembri tendere la coltura contemporanea, il Liebert crede di poterlo indicare nel senso religioso della vita con cui la civiltà orientale avvolge la inquieta spiritualità europea.
L’Oriente, rivelatosi dapprima nell’indignato orrore dei missionari per i culti assurdi ed atroci, sorridente poi tra i vezzi delle chinoiseries alla vita galante, poiché scoprì indifferente all’affannosa ricerca occidentale i tesori della sua millenaria sapienza, sembrò alle anime agitate dall’inquieta volontà di vivere, offrire quasi il sogno di un bene perduto, di una consonanza immobile e perfetta, di un compimento assoluto e immanente, in cui il divenire e la quiete, il piacere e il dolore, il bene e il male, l’essere e il non essere, sembrano ritrovarsi nel gioco alterno con cui sommuovono la vita in una indifferente unità.
La metafisica religiosa dell’Oriente è per il Liebert il mito della nostra coltura, verso cui le anime si volgono in cerca di pace. E noi vorremmo pure dargli ragione ma in senso totalmente opposto all’intenzione sua, ché noi vorremmo piuttosto credere che il mito della metafisica religiosa dell’Oriente sia quello in cui la nostra coltura – che ha in Platone e in Paolo i suoi princìpi – sperimenti la vanità assurda e l’oscuro pericolo d’ogni concezione e determinazione mitica della vita, e assuma piena coscienza della sua natura e del suo destino.
E i fatti sembrano darci ragione, ché l’orientalismo religioso sembra ammorbidirsi d’anno in anno in un languore di anime belle, quando non anche in una forma di igienismo mistico, nell’innocenza di una filosofia che, per l’astrattezza del suo momento razionale, concede all’irrazionale ogni libertà, ed è, modificando l’immagine hegeliana, la notte nera in cui tutti i cuori possono dormire e sognare in pace i loro piccoli sogni” [in: Esperienza religiosa e coscienza filosofica (“Conscientia”, 1926, rivista diretta da Giuseppe Gangale)].
Come dire? Cento anni di incomprensione. Perché nel pensiero dominante ieri come oggi, per un esistenzialista come per un post-moderno o post-umanista, il gingillarsi con le concezioni reintrodotte da Zolla prima e Marchianò poi, è ritenuto puerile, un ostacolo al dominare cartesianamente la realtà facendosi maître et possesseur de la nature.
A un simile e brutale pragmatismo, e contro qualunque calcolo delle probabilità, l’alternativa tuttavia esiste. Del resto, la doppiezza con sé stessi e con gli altri, oltre che segno di una finzione vacillante, ha i giorni contati. Quando crolla l’impianto ideologico che ridicolizza ciò di cui si ha paura (perché vi riconosce realizzato il proprio desiderio di completezza), appaiono dietro le rovine i panorami inusitati, dove « tutto si squaderna a partire da una diade: ciò che ha vita e cade, ciò che dà vita e sale ». In una simile prospettiva, mutano le idee stesse di Occidente, di Est, e di ciò che è comune.
Andrea G. Sciffo
©VI.2022