Editoriale 055 Azione profana, tempo sacro e felicità

altCon questo piccolo editoriale proseguiamo le considerazioni esposte nei due editoriali precedenti Priorità e Tradimento (Editoriale 050) e Le Occasioni dello Spirito (Editoriale 051).

Siamo partiti da Kairos l’occasione, abbiamo proseguito con l’accidia e il giudizio cercando di mostrare come sia l’una che l’altro siano in grado di sciupare e di far perdere l’occasione; abbiamo poi cercato di evidenziare come il modo profano di considerare il tempo uccida il respiro della natura e sterilizzi l’anima umana. E ora proseguiremo con l’irrealtà dell’azione profana che stermina il ritmo e cercheremo di verificare come tale azione crei un tempo surreale e virtuale che precipita in un presente–non presente abulico, passivo e ipnotico.

Per far questo parleremo di due tipologie di tempo: il tempo profano asservito alla necessità del lavoro quale fonte di "guadagno" e il tempo sacro quale introduzione nel mondo dell’attenzione e del ritmo.

Il tempo profano

A questo proposito rinviamo all’interessantissimo articolo del prof Pisani: Il Lavoro: strumento o fine?  e invitiamo a riflettere sulla dispersione causata dallla fruizione massiva dell’inutile e del superfluo che caratterizza la nostra epoca. Centinaia di ore della nostra vita buttate nel riempire la mente di fumo, nella contemplazione del fatuo (il grande centro commerciale, la partita, il negozio allettante, la pubblicità, il fitness, il sesso virtuale, il giochino elettronico e perfino la finta devozione) oppure nell’affanno di un lavoro di cui non comprendiamo il fine (se non quello di procurarci denaro per vivere). Il luna park della vita ordinaria ha dunque due facce: una c'illude col divertimento e il relax, nell’altra si crede di lavorare; in realtà le due azioni sono identiche.

Un equivoco furbissimo e ben programmato, di cui abbiamo parlato più volte e che non esitiamo a definire “diabolico”consente tale follia: il “lavoro”viene infatti considerato un diritto. Ma possiamo dire che ogni azione umana è lavoro: anche un’azione sterile, in quanto dissipa e trasforma energia.
E, per un milligrammo di energia utilizzata per un fine trasmutativo, conoscitivo, ascetico, realizzativo ma anche semplicemente intellettuale, esistono tonnellate d’energia fine a se stessa, gettate nel macero dell’effimero. 
Per cui il famoso “tempo libero”, che in realtà non è affatto tale e che molti impegnano in discoteca o in altri posti considerati “distraenti e divertenti”, è perfettamente equivalente al lavoro in ufficio o in fabbrica: dissipa enormi quantità d'energia delle quali solo una piccolissima parte è "utile" e "bella". Ognuna di queste azioni, infatti, produce un risultato interiore e uno esteriore.
Alcune di queste azioni si traducono in mera dissipazione e in addormentamento progressivo o anche traumatico della coscienza di sé:  cioè fanno entrare in un loop per cui tutta l’energia utilizzata produce un risultato autoreferente. Tale risultato può essere apparentemente piacevole o spiacevole.
A loro volta la piacevolezza o spiacevolezza possono essere piùo meno “finalizzate". Ad esempio vi può essere una iniziale spiacevolezza (fatica, impegno, sacrificio) che però conduce a una piacevolezza (miglioramento della propria cultura, affinamento spirituale, aiuto per il prossimo, etc.). Ma vi può altresì essere una piacevolezza iniziale (eccitazione sessuale, inseguimento del potere, gratificazione dell’orgoglio, omaggio acefalo al senso del dovere, etc.) che conduce infne a una spiacevolezza (incremento della superbia, dell’ego, del materialismo, della superficialità, etc.).
Ovviamente i processi si possono invertire e mescolare infinite volte, in funzione dello stato psicologico di colui che lavora dove gli altri si divertono o di colui che si diverte dove gli altri lavorano. Infatti alcuni lavori, se amati, possono essere straordinariamente divertenti, mentre alcuni divertimenti, se odiati possono essere deprimenti.

Ci sono infine dei lavori indispensabili al funzionamento della vita (come mangiare, respirare, dormire, muoversi, curarsi, etc.) e tali azioni (e questo è l’aspetto più sconvolgente dell’attuale società umana) sono state violentemente legate alle prime tre. Ad esempio, non abbiamo diritto di ripararci sotto un tetto se non abbiamo i soldi per assicurarcelo e, per assicurarci i soldi non è detto che si possa trovare un lavoro piacevole, ma assai spesso si è costretti a farne uno spiacevole o sempre più spesso, nessuno ce ne offre uno che ci consenta di automantenerci.
All’interno di questa spiacevolezza coloro che detengono i famosi e mai ben chiariti “poteri forti” hanno inserito falsi motivi gratificanti e rassicuranti (successo, indipendenza "economica", prevalenza, appartenenza a un'élite, riconoscimento, etc.) contrabbandando come se fosse un diritto il dovere di lavorare per procurarsi dei soldi. Per cui solo un'infinitesima parte di questi soldi alimenta un lavoro che sia realmente utile a me o agli altri. Tutto il resto va ad alimentare una mostruosa macchina finanziaria che mangia continuamente i risultati di una fatica collettiva e individuale: è una macchina progettata a tavolino, un mostro liturgico per distruggere l’anima.

Ovviamente più si creano falsi bisogni e dipendenze, per cui degli oggetti futili diventano indispensabili come mangiare e respirare, più la macchina diventa enorme e richiede vittime sacrificali. L’operazione satanica consiste nel far credere alle vittime sacrificali di essere liberi e indipendenti proprio perchè “lavorano”. Se si fa coincidere il concetto di lavoro con quello di libertà, si crea una turlupinatura grandiosa.
Invece, a “monte” dell’esercizio di un lavoro dovrebbe esistere un nobile fine, uno scopo superiore che aiuti a comprendere il senso del lavoro stesso e della vita.
Solo quando si sia definito e compreso il senso per cui si lavora forse si può trarre dal lavoro stesso un motivo di edificazione. Per questo il lavoro artigianale o generalmente artistico (che poi è la forma di lavoro più antica) ha una sua bellezza congenita e, generalmente offre a chi lo compie un profondo piacere: quello di compiere un’opera che conduce verso la bellezza o verso la perfezione, quello di vivere un sacrum facere in cui l’Opus e colui che opera diventano una medesima cosa.
Se amiamo la bellezza del nostro lavoro possiamo farne anche uno strumento di conoscenza. Se odiamo il nostro lavoro, creiamo solo motivo di astio verso chi ce lo ha proposto o imposto e alimentiamo il nostro male di vivere.

 

Il tempo sacro quale introduzione nel mondo dell’attenzione e del ritmo

Questa civiltà rumorosa ha divorato e desacralizzato il tempo: lo ha riempito di bisogni, di necessità fatue, di piccoli o grandi doveri apparentemente "sacralizzanti" (ad esempio per alcuni cristiani,  la Messa la domenica, vissuta come “dovere”, cioè la domenica "si va" a messa perché se no è peccato, per non dire dell’ipocrita scambio di abbracci coi quali si mette a posto una coscienza imbarbarita dal fatuo. Così si equipara un sublime atto rituale al timbrare il cartellino d’ingresso in azienda).

L’uomo Antico non aveva queste falsità carnevalesche. Viveva perennemente nel sacro, era costantemente in contatto con la divinità della natura e il suo agire era meraviglia rituale e perfezione di forme e contenuti. La preghiera era costantemente nelle sue mani, nella sua voce, nel suo cuore. Il lavoro e la fatica nel pensare o nell’agire erano un canto d’amore e il sacrificio era, appunto, il sacrum facere. Il sacrificio,non creava pena od orrore, non offrIva repulsione costringendo a rifugiarsi nella liturgia e nella preghiera solo quando ci si ricordava d’essere stanchi e di non farcela più. Chi di noi ha partecipato all’edificazione di qualcosa di sacro avrà constatato nella propria anima che il sacrificio operato con la consapevolezza della sua funzione rende felici. Non sereni ma realmente felici.
Questo è però crea grandi confusioni, sviluppa sciocchi masochismi in coloro che cercano di ripulirsi l'anima attraverso il dolore e non attraverso il sacrificio. Non è così che si pulisce l’anima. La fustigazione non ha mai redento nessuno, ma l’edificazione di una cattedrale sì!
Una cattedrale cela il nome dei suoi costrutturi tra le pietre, nasconde il fuoco d’amore tra i lumini del tempio, serra i suoi tesori dove nessuno può vederli. Ci sono tante cattedrali da costruire nella propria vita.
Anzi la nostra stessa vita è una cattedrale e perdere tempo a criticare ciò che non conosciamo, a disperdere cemento sacro sulla fatuità degli incontri inutili, dei rumori inutili, della vita inutile è quello che nel cristianesimo si chiama peccato, amartia, ossia fallire il bersaglio. Perder tempo a parlare “degli altri”, a criticare e a pontificare è un orrore senza fine: è veramente la porta sull’abisso del Male. E se ci pensiamo bene noi tutti siamo un peccato permanente aperto sull’abisso del male. 

Allora come si può recuperare la sacralità del tempo?
Tutti i grandi pitagorici e molti di praticanti dell’esichia cristiana hanno tramandato per millenni il segreto del tempo sacro. Nel volumetto L’Attenzione spirituale ho tentato di mostrare come i padri dell’esichia, attraverso la vigilanza interiore, fossero riusciti ad aprire una grandiosa porta sul Tempo sacro e si chiuda quella sul tempo profano.
Pavel Florenskij ha raccolto nei suoi volumi molti esempi di saggi e monaci che si sono dedicati al tempo sacro, e adattare i loro suggerimenti al nostro mondo laico e ossessionato dal tempo può sembrare difficile, eppure basterebbe re-introdurre il ritmo e l’attenzione nel proprio vivere quotidiano e basterebbe scacciare l’abulia. Già. Facile a dirsi...
Purtroppo il Tempo viene in continuazione sommerso dalla profanità dell’azione e dalla superficialità del vivere, che ne distrugge l’efficacia. Eppure tutto il Tempo è in realtà sacro. 
Il tempo, attraverso la precipitazione convulsa verso il modernismo, viene sempre più percepito come uno scorrere di ore, anzi di secondi che creano urgenze, appuntamenti, obblighi, scadenze, ma nel Medioevo i “secondi” non esistevano. Queste microparticelle diaboliche sono state "create" dagli orologi. Per cui l’”urgenza” (totalmente artificiale) suggerita dalla corsa delle lancette o dei numeri sui dispay digitali è un concetto modernissimo del tutto assurdo, che dà importanza alla parcellizzazione del tempo in frammenti utilitaristici, “produttivi" e misura l’efficienza basandosi sull'ottimizzazione del “consumo” del tempo. E siamo di nuovo nel loop micidiale governato dal consumo. Tale moderna concezione del tempo uccide la possibilità offerta dall’attenzione sacra nell’istante presente e reale e crea l’ansia da prestazione nei confronti di scadenze poco importanti.
Ma l’antica immagine di Chronos, oltre che dalla falce era caratterizzata anche dalle ali che consentono il volo sopra la condizione ordinaria. Per cui il Vero Tempo, che la fisica moderna considera indissolubilmente legato allo spazio, è una formidabile occasione di sperimentazione sensibile, un passaggio verso le indefinite possibilità dell’essere (come direbbe Guénon), un dono. Non è uno scorrere dei secondi, ma l’eterno fluire di un fiume. Ma per essere riconosciuto come tale, dovrebbe essere collegato all’alba e al tramonto, al sole e alle stelle, alle stagioni, ai solstizi, agli equinozi e non agli orologi o al falso tempo del web che, tutto è, fuorchè reale.

Ovviamente, dentro un mondo pieno di “tempi” collettivi, dove si entra e si esce in massa da luoghi (chiamati impropriamente di “svago” o di “lavoro”, che in realtà sono luoghi di prigionia) si resta del tutto alienati dal contatto col cielo e con la terra. In tali luoghi è ben difficile ripristinare un contatto col sacrum: uffici, fabbriche, imprese, ministeri, mezzi di trasporto... tutto congiura per portare l’essere a dimenticarsi di sé per concentrasi solo sul “fare” esteriore, sullo “stare” collettivamente, sul “fruire”.

In tal modo il tempo sacro è stato massacrato, schiavizzato dalla necessità del fatuo.
Temo che sia ormai tardi per richiamare Chronos. Sicuramente è morto così come è morto Pan. Ma forse, in qualche anfratto della coscienza, è ancora possibile una resurrezione.

Claudio Lanzi

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